La parola ha rappresentato la chiave evolutiva per l’uomo, determinando il passaggio a una società dove la comunicazione costituisce la forma di relazione personale più immediata: comunicare significa vivere, rendere la realtà esperienza condivisa, dare sostanza alle cose riconducendole all’unicità del linguaggio. Nel recente saggio “Elogio della parola”, Lamberto Maffei ne tratteggia l’evoluzione, con finalità difensive, partendo dalla splendida convinzione che “l’uomo, la sua unicità e la sua civiltà siano espressi da una stringa di parole che la ragione infila nella collana della storia”. Oggi - la pandemia lo dimostra, al di là di ogni benevolo dubbio - corriamo il rischio che, priva di ogni residuo di ragione, quella stringa finisca per spezzarsi, mandando in frantumi la collana della nostra attualità: il funambolico vortice delle fonti di (dis)informazione, moltiplicatesi a dismisura nell’oceano della rete, porta ormai a sovrapporre il reale al surreale, in un magmatico flusso mediatico, dove la verità diventa opinabile e le capacità di giudizio di larghe fasce della popolazione (non solo italiana) rispetto alle notizie false si vanno drammaticamente riducendo. Il dato, al di là della stretta cronaca, induce a riflettere, perché le nuove tecnologie determinano effetti irreversibili sui comportamenti e sulle abitudini sociali: l’analisi dei numeri racconta che la metà della popolazione mondiale (3,8 miliardi di persone) utilizza regolarmente i social media (il 98% si collega tramite dispositivi mobili), mentre sono 4,54 miliardi le persone connesse a Internet (Report Digital 2020 di WeAreSocial, in collaborazione con Hootsuite). Le statistiche più sorprendenti fotografano la permanenza online: l’utente medio spende “navigando” un tempo pari a oltre 100 giorni all’anno (6 ore e 43 minuti al giorno): oltre un terzo di questo tempo, 2 ore e 24 minuti al giorno, è dedicato specificamente all’uso dei social network. La perenne immersione nella rete incide anche sulla psicologia degli utenti: più di una persona su due (56%) presta particolare attenzione al tema delle fake news, come potenziale elemento di distorsione dell’informazione, e il 64% manifesta preoccupazione circa la modalità con le quali le aziende utilizzano i loro dati personali. L’eloquenza dei numeri non può che trovare conferma nell’infuocato dibattito che ruota attorno al Covid: secondo l’ultimo rapporto Censis “Disinformazione e fake news durante la pandemia” (aprile 2021), gli effetti della comunicazione confusa sono talmente deleteri che addirittura 5 milioni di italiani (circa il 10% del totale) sono ancora convinti che i bambini non possano ammalarsi con il virus. Questo continuo sovraffollamento comunicativo, alimentato da notizie non verificate o perfino inventate, invece che migliorare il grado di conoscenza di un determinato evento, sta provocando sempre più spesso una visione distorta della realtà, sfociando in situazioni di allarme sociale e comportamenti che portano con sé conseguenze fatali sull’intera comunità. La questione impatta decisamente anche sulla sfera del diritto: la disinformazione, infatti, può essere arginata soltanto con un sistema normativo adeguato al nuovo assetto dei canali di comunicazione, prevedendo parallelamente accordi di principio con le maggiori piattaforme social e promuovendo iniziative di sensibilizzazione sull’uso consapevole della rete. La diversa conformazione della realtà sociale in base al proliferare di una conoscenza gravemente falsata, unita alla dispersione del concetto stesso di comunicazione, determina - sul piano strettamente giuridico - notevoli implicazioni, che attengono all’interpretazione delle regole generali di condotta e, di conseguenza, all’efficacia (o meno) delle norme. Ne stiamo avendo un esempio quotidiano, in queste settimane, con il tema dei vaccini e del cosiddetto green pass: si è ormai ribaltato il normale processo di formazione del pensiero, che origina dall’acquisizione della notizia, la quale, metabolizzata come informazione, diventa patrimonio - individuale e collettivo - di conoscenza. Adesso, al contrario, si forma prima l’idea (ovviamente contrastante con quella “ufficiale”, ritenuta sconveniente e dannosa, seppur basata su verità scientifiche) e soltanto dopo, per supportarla e diffonderla, si costruiscono le notizie deformate ad arte, lasciando che la rete operi da detonatore, generando la più classica scia di opinioni, commenti e invettive: è assodato, infatti, che una fake news abbia una velocità di propagazione sul web anche di venti volte superiore rispetto alle altre. È un brodo di coltura molto pericoloso, perché porta alla creazione di una verità “altra”, che per molti - sprovvisti di mezzi culturali e psicologici adeguati - diventa la verità “unica”. Nella difficile sfida della riconquista di un pensiero autentico, la fascia più critica è quella dei giovani: da nativi digitali, non potrebbero immaginarsi lontani da Internet e, proprio per questo, corrono i rischi maggiori di subirne gli influssi negativi, facendosi coinvolgere - spesso per immaturità - dalla catena delle fake news. In questa prospettiva, giocano un ruolo delicatissimo non soltanto i genitori e la famiglia, primo presidio nella quotidianità, ma anche gli educatori e le Istituzioni: il corretto sviluppo cognitivo dei minori, infatti, è un obiettivo fondamentale per l’intera società, rappresentando il diritto all’informazione la prima fase di consolidamento dell’idea di comunità democratica, fondata su rapporti paritari tra individui consapevoli. La falsa conoscenza, per certi versi peggiore dell’ignoranza, è - invece - in grado di innescare un drammatico domino di inconsapevolezza, che va combattuto sin dai banchi di scuola (o dai primi smartphone, se si vuole): una battaglia che, a buon diritto, può essere ricondotta alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, sottoscritta nel 1989 dall’Assemblea generale dell’Onu, e ai suoi principi fondamentali, tra i quali il diritto alla protezione e al benessere del minore, nonché il diritto all’ascolto e alla partecipazione. Di particolare rilievo, in tal senso, è il primo comma dell’articolo 13, che - riferendosi alla libertà di esternare le proprie convinzioni - presuppone e tutela il diritto alla corretta informazione: “Il fanciullo ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di ricercare, di ricevere e di divulgare informazioni e idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere, sotto forma orale, scritta, stampata o artistica, o con ogni altro mezzo a scelta del fanciullo”. È un difficile equilibrio tra libertà e controllo, che - lontano dalle imposizioni - può essere tenuto in piedi unicamente dalla fiducia e dalla coscienza indotta dall’autentica conoscenza: i ragazzi possono ottenere la “piena cittadinanza digitale”, utilizzando la tecnologia in modo sano, senza farla diventare preponderante rispetto alla vita reale e soprattutto gestendola in modo da valutarne appieno vantaggi e criticità. Un approdo raggiungibile mediante una seria e ragionata educazione digitale, che viaggi coerentemente con l’istruzione, come componente primaria dell’apprendimento: non è più concepibile (né utile) un percorso scolastico credibile e realmente formativo che non comprenda - da un lato - l’analisi e il senso stesso della “vita” telematica e - dall’altro - le giuste coordinate per renderla fruibile, secondo canoni di accessibilità e sicurezza. La chiave di volta, in questa semina della crescita, diventa proprio la capacità di muoversi nella rete, distinguendo innanzitutto ciò che è vero da ciò che è artefatto (spesso talmente bene da apparire verosimile): per questo, istruzione, cultura e maturità digitale non possono che evolversi in unica via, attraverso l’esperienza diretta a verificare le notizie. È questo il passaggio più complesso, perché serve far sviluppare uno spirito critico sempre più marcato in soggetti - adolescenti, ma ormai anche preadolescenti - che frequentemente manifestano un’intolleranza “fisiologica” per ogni forma di regola imposta dall’esterno: per tale ragione, diventa indispensabile una formazione costante con un approccio educativo collaborativo, che segua il versante scolastico e quello familiare, avendo come scopo finale quello di rendere spontanea la ricerca di fonti autorevoli. Ecco perché occorre operare direttamente sul campo, guidando e coinvolgendo i ragazzi nella scoperta delle insidie della rete e portandoli - nel modo più intuitivo possibile - a rendersi conto di come le notizie, anche apparentemente verosimili, possano essere identificate come fake news, attraverso l’analisi di alcuni particolari: immagini contraffatte, storie costruite ad arte per essere più credibili, nomi falsi dei siti, linguaggio scientifico usato impropriamente soltanto per rendere verosimile un’opinione non supportata da riscontri oggettivi. Il tutto anche per evitare che i giovani siano portati a partecipare a tutte quelle inutili (e anzi dannose) discussioni, che montano a margine di episodi di disinformazione, con l’unico effetto di renderli ancora più virali. Bisogna, in altri termini, operare - individualmente e collettivamente - per limitare al massimo il fenomeno della cosiddetta overconfidence, ossia quella eccessiva fiducia dei minori nelle proprie capacità di giudizio rispetto alle notizie, derivante dall’innegabile abilità nell’uso degli strumenti tecnologici: non è un caso, d’altronde, che, secondo una recente ricerca della Fondazione Mondo Digitale per il progetto “Vivi internet al meglio”, condotta - in collaborazione con Google e Altroconsumo - su giovani tra 14 e 19 anni, ben 3 su 5 considerino la rete la prima fonte per informarsi e, nonostante il 90% sia a conoscenza dell’esistenza di news non autentiche, più di un terzo degli intervistati (36,3%) dichiari di non essere mai stato vittima di disinformazione e comunque il 43,2% sostenga di esserlo soltanto poche volte all’anno. La consapevolezza dell’autodifesa dal virus della disinformazione diventa, pertanto, la più potente arma di contrasto al proliferare delle notizie false: il controllo delle fonti, attraverso un’attività costante di fact-checking, rappresenta il modo più semplice ed efficace per farlo. È il messaggio fondamentale da trasmettere ai giovani nella ripida e malferma scala dell’educazione digitale, così da poter tornare al condivisibile concetto primario di informazione, sostenuto da Hegel già nel 1820 e sempre attualissimo: “La preghiera dell’uomo moderno è la lettura del giornale: ci permette di situarci nel mondo storico, quotidianamente”. Situarci nel mondo storico, appunto. Con notizie vere. *Avvocato del Foro di Milano