Spettabile Direttore e Redazione, mi permetto di intervenire con qualche rigo sul dibattito in corso su Il Dubbio in ordine alla “fuga” dalla professione forense. Da quasi 50 anni esercito la professione di Avvocato civilista a Palermo; una realtà molto difficile. Ma, quando io ho cominciato, “essere Avvocato” era diverso da “fare l’avvocato”, solo perché non si aveva nulla di meglio. Io ho iniziato con grande entusiasmo e non avrei mai ritenuto possibile volere smettere; allora si diceva che gli Avvocati morivano a tavolino, perché quasi tutti continuavano la loro professione per tutta la vita. Oggi invece devo dire onestamente che non vedo l’ora di concludere la mia ultima pratica; ma non condivido le motivazioni, puramente economiche, espresse su Il Dubbio da molti Colleghi. È indubbiamente vero che gli Albi sono da tempo inflazionati e il numero degli Avvocati è eccessivo, che la redditività della professione è enormemente calata e non ripaga i sacrifici che essa impone, che la qualità degli esercenti la professione è precipitata e che le prospettive di pensione sono basse ed incerte. Però, almeno per quanto mi riguarda, le motivazioni del mio desiderio di “fuga” sono diverse. È più una questione di fiducia nella certezza del diritto, che ormai mi è venuta meno. La categoria degli Avvocati negli ultimi decenni ha avuto un enorme incremento quantitativo, ma parallelamente ha subito un drammatico ridimensionamento di qualità. Anche la Magistratura non è più quella che conobbi all’inizio della mia attività. Non tanto dal punto della preparazione, che è comunque elevata, come del resto quella della maggior parte degli Avvocati, né per l’infinita serie di gravissimi scandali che hanno minato la credibilità di quella istituzione, che tuttavia rimane un essenziale presidio della nostra democrazia e libertà; quanto perché ormai molti Magistrati non mettono nella loro attività quella sensibilità, quella partecipazione emotiva alle vicende delle persone di cui si occupano e alle conseguenze dei loro provvedimenti sulla vita dei singoli, in altre parole quella “umanità”, che un tempo contraddistingueva l’esercizio della giurisdizione. Non è un problema qualitativo, ma quantitativo. Ogni Magistrato ha ormai un carico di lavoro così rilevante da scoraggiare spesso qualsiasi zelo e volontà di farvi veramente fronte nel modo più utile alla collettività; con l’eccezione, come sempre, della abnegazione che contraddistingue alcuni “eroi”. Però l’eccessivo numero di Avvocati e il troppo ridotto numero di Magistrati non sono la causa dei problemi della giustizia italiana, ma solo il loro effetto. Sono profondamente convinto che il vero problema che determina il proliferare incontrollato dei processi è la quantità enorme ed eccessiva di disposizioni normative che infestano inutilmente il nostro ordinamento, aggravato da continue modifiche legislative e, mi si consenta, anche dalla giurisprudenza così detta “creativa” della Corte di Cassazione, che spesso stravolge il senso, gli obiettivi e il contenuto delle leggi emanate dal Parlamento. Se non si pone mano ad una seria riforma che semplifichi in modo radicale il nostro ordinamento, non serve a nulla snellire le norme processuali, che comunque andrebbero riviste, né rinfoltire i ranghi della Magistratura. Quello che mi scoraggia è vedere come la miopia della nostra scadentissima classe politica, in qualsiasi proposta di riforma della giustizia, guardi agli effetti e non alle cause. Ciò con il tempo ha fatto venire meno in me qualsiasi fiducia in una possibile certezza del diritto, che è però la base fondante della giurisdizione. Ed è questo il motivo per cui ormai non vedo l’ora di potere smettere di fare parte dell’Avvocatura, alla quale per tanto tempo mi sono onorato di appartenere. Lettera Firmata Avv. Aldo Fici