Secondo il professore Fausto Giunta, ordinario di Diritto penale nell’Università di Firenze, dove è direttore della Scuola di specializzazione per le professioni legali, per garantire un abbattimento del sovraccarico giudiziario «la via maestra è il potenziamento delle tecniche di depenalizzazione in concreto. Bisogna entrare nell’ordine di idee che il sistema oggi non può aspirare, come in passato, a processare e reprimere tutto il penalmente rilevante». E sulla improcedibilità, al centro della riforma di mediazione della Guardasigilli Marta Cartabia aggiunge: «Senza una riduzione del numero dei procedimenti in entrata, l’obiettivo deflattivo non sarà pienamente centrato».

Professore, l'Europa ci ha chiesto di ridurre del 25% la durata dei giudizi penali. Sarebbe stato utile porre sul tavolo della discussione la strada di un diritto penale minimo?

Il diritto penale minimo, fatto di poche norme chiare e semplici, costituiva uno degli ideali dell’età moderna. E non sono mancate legislazioni che si sono avvicinate a questo modello. Il numero dei reati previsti nella parte speciale dai codici penali preunitari e dal codice Zanardelli del 1889 era contenuto. Nel suo disegno originario, anche il codice Rocco, sebbene criticato di essere eccessivamente casistico, aveva una parte speciale meno estesa di quella attuale. Senza considerare il profluvio di fattispecie incriminatrici extra codicem che si sono stratificate nel tempo, un universo in continua espansione e cui massimi confini sono ignoti a tutti, come il numero delle stelle del firmamento.

Venendo alla sua domanda, bisogna chiedersi se sia praticabile questo ritorno all’antico ( che, lo dico tra parentesi, conosce emulazioni recenti a livello comparatistico, ma al prezzo di fattispecie affette da indeterminatezza). Certo la riduzione del numero dei reati avrebbe effetti benefici sul numero dei processi e sulla loro durata. Ma è la premessa che merita una attenta verifica. L’espansione del “penale” non è un fenomeno solo italiano. È un prodotto della complessità sociale. Cresce il ruolo del diritto e con esso anche quello della legislazione penale. La particolarità della situazione italiana sta nel fatto che non abbiamo ancora trovato il modo adeguato di gestire questa tendenza al cosiddetto panpenalismo, al diritto penale totale, per usare un’efficace espressione di Filippo Sgubbi.

Tra codice penale e leggi speciali di quanti reati, indicativamente, possiamo essere accusati? Centinaia, migliaia?

Tanti, troppi. Non siamo in grado nemmeno di stabilire esattamente il numero delle previsioni di reato attualmente vigenti. Non si tratta di milioni di milioni, come recitava una reclame d’altri tempi, ma di migliaia ( in prevalenza fattispecie contravvenzionali extra codicem).

Luigi Ferrajoli scrive che «solo un diritto penale ridotto alle figure di reato più gravi - a quelli che Francesco Carrara chiamava i ' delitti naturali” perché considerati tali anche dai non esperti di diritto - può restituire credibilità al diritto penale, facendone uno strumento di tutela che non può essere disturbato né disturbare i cittadini per illeciti bagatellari che ingolfano inutilmente, fino a paralizzarla, la macchina giudiziaria». Non trova che si abusi del diritto penale, utilizzandolo come strumento per rispondere ai bisogni emotivi dei cittadini?

Ho già manifestato il mio scetticismo sulla praticabilità del minimalismo penale, soprattutto nella forma estrema autorevolmente proposta da Luigi Ferrajoli, mentre sono d’accordo sulla depenalizzazione delle bagattelle. Va tenuto conto, però, che tra le due categorie dei “delitti naturali”, da un lato, e delle bagattelle, dall’altro, ve ne è una terza estremamente numerosa che è composta da delitti cosiddetti artificiali, che non possono essere espunti dal sistema repressivo. Si pensi ai settori del diritto penale dell’economia, dell’ambiente, ai delitti contro la pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, solo per fare alcuni esempi.

Va tenuto conto, poi, di un altro aspetto: la depenalizzazione in astratto presuppone che il fatto incriminato non sia in nessun caso meritevole di pena. Non si tratta di ipotesi numerose. Ben più frequenti sono i fatti storici, corrispondenti alla previsione incriminatrice, che non richiedono di essere puniti in concreto. In questi casi la depenalizzazione “orizzontale” comporterebbe irragionevoli lacune di tutele. La giusta risposta politico- criminale sarebbe una depenalizzazione “verticale”, ossia affidata al processo e ispirata a una concezione gradualistica dell’illecito penale. Faccio un esempio: il delitto di truffa non è bagatellare in sé, ma può esserlo in concreto. Altro è la truffa che causi un danno patrimoniale di milioni di euro, altro è la truffa che offenda il patrimonio della vittima in misura trascurabile.

Il nostro sistema giuridico, politico, culturale può ambire a un diritto penale come extrema ratio?

Il diritto penale deve ispirarsi alla sussidiarietà, ossia deve preferire, quando possibile, soluzioni alternative alla pena nella risoluzione del conflitto sociale. Non si tratta soltanto di una prospettiva feconda, ma di un imperativo categorico. Il diritto penale è il diritto dei limiti sia alla libertà morale, sia a quella personale (perché opera attraverso divieti presidiati da sanzioni ancora oggi in prevalenza detentive). Ne consegue che il suo stesso impiego deve essere limitato nella misura strettamente necessaria. Questo vale per la produzione delle norme penali, ma anche per la loro applicazione. Purtroppo il legislatore e la magistratura sono da tempo sedotte dalle sirene populistiche e credono che la pena sia salvifica. In realtà da sola la pena non basta. Com’è stato ben detto da Massimo Nobili, l’intervento punitivo è un’immoralità necessaria. L’irrogazione di pena che non sia strettamente necessaria, è un’immoralità inutile quando non è dannosa.

In merito alla questione delle pene, c'è una tendenza ad aumentarle. Qual è il suo pensiero su questo?

Il panpenalismo sconfina spesso nel terrorismo punitivo. La recente legislazione si caratterizza per comminatorie edittali molto elevate tanto nel massimo, quanto nel minimo. Al confronto, il truce codice Rocco sembra un’antologia di penitenze da educande.

Fatto questo quadro, quali, allora, le soluzioni possibili?

La via maestra è il potenziamento delle tecniche di depenalizzazione in concreto, alle quali ho già fatto cenno, le sole che possono garantire un abbattimento del sovraccarico giudiziario senza smantellare la necessaria tutela sociale svolta dal diritto penale. Non siamo di certo all’anno zero, ma quel che è stato fatto non è sufficiente. Bisogna entrare nell’ordine di idee che il sistema oggi non può aspirare, come in passato, a processare e reprimere tutto il penalmente rilevante. In relazione ai reati più gravi non può ammettersi che la cifra oscura avvolga una criminalità destinata a rimanere sommersa. Per i reati meno gravi, invece, la repressione non può essere globale, ma va limitata alle ipotesi che richiedono la risposta punitiva.

Nella gran parte degli ordinamenti questa scelta è affidata al pubblico ministero, che tuttavia è gravato da responsabilità politica. Il discorso finisce per interessare il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e l’ordinamento giudiziario. Nel nostro ordinamento, nonostante il contrario disposto dell’art. 112 Cost., il pubblico ministero, selezionando in certa misura e di fatto i reati da perseguire, effettua scelte politico- criminali. Si tratta – sia chiaro – di valutazioni necessarie per la sopravvivenza del sistema, ma opache. La prescrizione sostanziale ha cambiato natura, perché serve a consentire queste scelte occulte: le notizie di reato che non vengono coltivate finiranno nel cono d’ombra del dimenticatoio prescrizionale.

A proposito di prescrizione, secondo lei la riforma appena approvata alla Camera detta di “mediazione Cartabia” raggiunge l'obiettivo richiesto dall'Europa, soprattutto in riferimento all'improcedibilità?

Come ricordava, il testo non è ancora definitivo e paga, in termini di coerenza, il prezzo di una faticosa mediazione tra le forze politiche governative. Limitando l’attenzione all’improcedibilità dell’azione, si tratta di uno strumento che viene utilizzato con funzione deflattiva.

La sua ratio, però, è un’altra: assicurare la ragionevole durata del processo. Senza una riduzione del numero dei procedimenti in entrata, l’obiettivo deflattivo non sarà pienamente centrato. E nemmeno quello della ragionevole durata: consentire al giudice di prorogare il termine dell’improcedibilità per alcuni reati, è come affidare la gestione del semaforo rosso all’utente della strada, ossia all’automobilista che è tenuto a fermarsi. Quanto ai reati soggetti alla disciplina ordinaria, il progetto risente negativamente dei pregressi rimaneggiamenti della prescrizione sostanziale. Un processo che durasse mediamente più di sei anni forse non ci porterebbe fuori dall’Europa, ma fuori dal buon senso sì.

In merito al tema affrontato all'inizio di questa intervista come ci poniamo rispetto agli altri Paesi europei?

In parte ho già risposto a questa domanda: gli ordinamenti improntati alla discrezionalità dell’azione penale hanno una valvola di sfogo, per così dire in entrata, che consente di dosare il carico giudiziario, evitando il sovraccarico. Posso aggiungere che senza una buona dose di pragmatismo il sistema non funziona. E ancora: il panpenalismo, fenomeno diffuso anche all’estero, da noi è alimentato ora dalla logica della lotta politica di cui diventa strumento, ora da un malinteso concetto di legalità penale, anch’essa politicizzata, ossia piegata a logiche di efficacia del controllo, piuttosto che di garanzia del favor libertatis. Mi ripeto: è diffusa dentro e fuori del mondo del diritto, l’idea ( anzi la pericolosa illusione) che la società possa, anzi debba governarsi a colpi di bastone. Ma la minaccia di pena è uno strumento di conservazione, non di palingenesi sociale.