«Michetti chi?», domanda un cartellone elettorale del candidato della destra alla prestigiosa poltrona di sindaco di Roma. La risposta non è ancora pervenuta. «Mi chiamo Michetti, risolvo problemi», spiega un secondo cartellone. Però la versione capitolina del celebre «my name is Mr. Wolf. I solve problems», copyright Quentin Tarantino, somiglia da vicino a una parodia. Michetti resta un candidato debolissimo, tanto da mettere molto seriamente a rischio una vittoria che a Roma, con tre candidati del centrosinistra in competizione tra loro, la destra aveva in tasca.

A Milano sfidare Sala, sindaco uscente del centrosinistra, era la più improba impresa. Un candidato forte e con nome di sicuro richiamo sarebbe stato indispensabile. Non si può dire che Luca Bernardo risponda al requisito.

A Bologna, capitale rossa o almeno rosa, la partita era forse persa in partenza. A volersela almeno giocare la destra, sondaggi alla mano, avrebbe dovuto mettere in campo l'ex direttore del Quotidiano nazionale Andrea Cangini. La scelta, al suo posto, dell'imprenditore Fabio Battistini sembra proprio un non volerci neppure provare.

Anche a Napoli la sfida era difficilissima, la destra contro Gaetano Manfredi, in testa di molte lunghezze nei sondaggi, ci prova con Catello Maresca, nome non tanto forte da impensierire il candidato della sinistra sostenuto anche dai 5S.

Al momento la destra è in vantaggio solo a Torino, con Paolo Damilano che sopravanza di 4 punti o giù di lì Stefano Lorusso. Ma a Torino la coalizione di centro sinistra è un arcipelago, ogni isola il proprio candidato, e non è detta l'ultima in un eventuale anzi probabile ballottaggio.

Insomma se sarebbe probabilmente esagerato affermare che nelle Comunali d'autunno la destra gioca per perdere, non lo è affatto sostenere che certo non si è neppure sforzata molto per vincere. Tutto può succedere, ma i pronostici sono quelli che sono e vaticinano un quasi cappotto di una sinistra che tutti i sondaggi danno invece minoritaria nelle elezioni politiche.

Né si può dire, come nel caso dei 5S, che la destra italiana sia per tradizione poco interessata alle elezioni amministrative o regionali. La realtà, casomai, è opposta. È quindi inevitabile chiedersi perché la destra abbia deciso di giocare una partita a perdere o quasi, non solo evitando di puntare su nomi forti ma anche scegliendo i propri “campioni” in ritardo, con modalità rocambolesche, evidenziando divisioni profondissime.

La risposta è probabilmente proprio in quelle lacerazioni. Nella destra italiana tutti, ma soprattutto Pd e 5S, giocano per sé molto più che non per la coalizione. Nessuno ha voluto rinunciare alla propria piazza ma neppure alla facoltà di condizionare la scelta del candidato in quelle piazze e soprattutto nessuno ha voluto correre il rischio di mettere in campo un nome pesante sapendo che un'eventuale sconfitta sarebbe poi costata carissima negli equilibri interni alla coalizione. Se Michetti dovesse perdere a Roma per Giorgia Meloni non sarebbe una catastrofe. Ma se a essere sconfitto fosse invece un fratello d'Italia di prima fila il discorso cambierebbe e la stessa logica vale per la Lega a Milano.

La stessa feroce competizione interna fa sì che per tutti i partiti della destra la cosa più importante non sia conquistare le amministrazioni comunali ma prevalere o rinsaldare le proprie posizioni nel voto di lista. Tanto, è l'inconfessabile calcolo, sarà la legge elettorale, che nessuno immagina possa cambiare, a imporre comunque l'alleanza e a quel punto si tratterà di prendere un voto in più degli alleati per conquistare la leadership e, almeno negli auspici, palazzo Chigi.

È un calcolo non privo di senso ma probabilmente miope. Prima di tutto perché elezioni amministrative a distanza comunque ravvicinata da quelle politiche non restano di solito senza conseguenze sull'esito delle politiche stesse e le comunali d'autunno potrebbero tirare la volata al centrosinistra in misura ben superiore a quella immaginata dalla destra. Poi perché, come la legislatura in corso dimostra, nulla costringe le coalizioni elettorali a restare tali anche dopo il voto e un'alleanza che arriva alle urne in permanente guerra interna apre più di un varco alla possibilità di dover rivedere tutte le intese un minuto dopo la chiusura delle urne.