Il dibattito sul green pass ha assunto toni da stadio, con prese di posizione ideologiche e interpretazioni costituzionali esasperatamente contrapposte. La letteratura pubblicistica su questo tema è già molto ampia e continua ogni giorno ad allargarsi. Teorici della discriminazione e del pregiudizio al sistema economico si fronteggiano con fautori della liceità ed anzi della opportunità o necessità per evitare misure legislative più forti e generalizzate.

Negli ultimi giorni è emersa una ulteriore area di dibattito, alimentata da circolari ministeriali contraddittorie e da opinioni dell’Autorità indipendente per la tutela della privacy. Si tratta della misura dei poteri/ doveri di controllo dei gestori di esercizi pubblici e di impianti sportivi sulla esibizione del green pass ed eventualmente del documento di identità del suo portatore. Alquanto diversa e più ristretta dal punto di vista concettuale, ma non meno impegnativa, la querelle relativa all’impiego del green pass sul luogo di lavoro privato.

Il dibattito meriterebbe comunque di essere spogliato di gran parte del contenuto ideologico e riportato a buon senso ed esperienza. Le stesse iniziative del ministero si sono mosse dapprima nel senso di inibire ai gestori i controlli sull’identità dei clienti, ritenendoli riservati alle forze dell’ordine, e poi, con la circolare del 10 agosto del capo di gabinetto del ministero, in quello di consentirli o richiederli selettivamente in caso di evidenti mancanze di corrispondenza (“manifesta incongruenza con i dati anagrafici contenuti nella certificazione”). Queste mosse sono parse ispirate più da timori di critiche di una parte o dell’altra dello schieramento politico che da una linea precisa.

La soluzione ad oggi applicata comporta una significativa, e forse non perfettamente definita, discrezionalità del gestore nella verifica del documento di identità. Peraltro, le sanzioni in caso di utilizzo della certificazione da parte di persona identificata come diversa in base al documento di identità, consistono in ammende non solo carico del consumatore, ma anche del gestore. Le forze dell’ordine sono invitate ad effettuare controlli, ma con discrezione.

L’ordinamento italiano conosce da decenni sistemi di controllo di documenti di identità affidati a privati, gestori di esercizi pubblici, organizzatori di eventi in luoghi aperti al pubblico, operatori economici di diversa natura. Alcune di queste ipotesi sono state regolate da fonti primarie, leggi o testi unici; altre sono state introdotte in via amministrativa, con agganci più o meno diretti a norme primarie. Così ad esempio il divieto di vendere o somministrare tabacco ai minori di anni 16 è stato istituito dal R. D. 24 dicembre 1934, n. 2316, e comportava fino al 2012 una sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dal prefetto; la soglia di età è stata elevata a 18 con decreto legge 158 del 2012, che ha introdotto anche la sospensione prefettizia per tre mesi al venditore. La vendita o somministrazione ai minori di anni 14, invece, era ed è punita dall’art. 730 del codice penale con ammenda, necessariamente di competenza dell’autorità giudiziaria. Ovvio che l’esercente debba effettuare un controllo sull’età dell’acquirente, eventualmente richiedendogli l’esibizione di documento di identità. A partire dal 2012 una ordinanza del ministro della Salute 28 settembre 2012, in GU. 23 ottobre, n. 248) ha introdotto in via amministrativa, sulla base di pareri dell’Istituto superiore di sanità, il divieto di vendita ai minori di 16 anni di sigarette elettroniche con presenza di nicotina, evidentemente per analogia con la vendita di tabacchi, senza peraltro supporto di legge, estendendo quindi le sanzioni amministrative. Nello stesso modo il divieto è stato innalzato a 18 anni ( ordinanza 26 giugno 2013, in G. U. 29 luglio 2013), sempre su base di valutazioni scientifiche, e al tempo stesso è stato vietato l’uso delle sigarette elettroniche nei locali chiusi degli istituti scolastici. Per via di ordinanza sono state estese le sanzioni amministrative del R. D. del 1934. Poiché il tabacco può venire venduto anche mediante distributori automatici, e la installazione dei relativi apparecchi nelle rivendite o nei dieci metri all’esterno di esse non è soggetta ad autorizzazione amministrativa ma solo a comunicazione, a differenza che nei bar, la loro installazione ed attivazione richiede che l’apparecchio automatico sia dotato di sistema di lettura automatica del documento dell’acquirente, inclusivo dei dati anagrafici. Questa disposizione è stata introdotta con circolare, neppure ministeriale, ma della Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato ( 11 gennaio 2007), di cui non risulta neppure pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Il divieto di vendita o somministrazione di bevande alcoliche a minori di 16 anni ha invece fondamento nell’art. 689 del codice penale, che punisce il comportamento del titolare dell’esercizio, punibile con l’arresto fino ad un anno e con misure amministrative conseguenti. Viceversa la somministrazione a minori di 18 anni costituisce illecito amministrativo, configurato attualmente dalla legge 48 del 2017 e punito con sanzione pecuniaria o con la sospensione per tre mesi in caso di recidiva. Anche in questo caso l’esercente ha l’onere di richiedere un documento di identità prima di vendere o somministrare, non potendo usare ad esimente l’apparenza fisica del cliente. Si può discutere se ne abbia l’obbligo: probabilmente no, ma è evidente che l’ordinamento cerca di utilizzare il rischio del gerente come strumento di controllo a fini di tutela del bene primario della salute del cliente e della collettività.

L’accesso ai cinema in caso di proiezione di pellicole vietate ai minori di 14 o 18 anni, già disciplinato dalla legge 161 del 1962, è ora regolato dalla legge 220 del 2016 ( art. 33) e dal decreto legislativo 203 del 2017. Anche in questo caso l’esercente “provvede a impedire” che gli appartenenti alle fasce di età di cui alla classificazione “accedano al locale”, salvo che accompagnati dal titolare della potestà genitoriale. Le sanzioni amministrative sono di competenza prefettizia e sono disciplinate dal decreto delegato stesso, dunque da fonte primaria. Ma la disciplina dei videogiochi e la loro classificazione in vista del “giusto ed equilibrato bilanciamento tra la tutela dei minori e la libertà di manifestazione del pensiero” è rimessa ad un regolamento dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sentito il ministro dei Beni culturali ( art. 10 dello stesso decreto legislativo). E in questo caso la normazione è amministrativa.

Un altro esempio, più noto in quanto riferito allo sport più popolare, è quello dell’accesso agli stadi calcistici. Nel 2009 si creò la tessera del tifoso, documento necessario per l’acquisto del biglietto e per l’accesso agli stadi anche in trasferta, strumento giudicato necessario per esigenze di sicurezza. Lo strumento fu un decreto legge ( 11/ 2009). Nell’estate 2017 questo regime fu abolito, con ripristino dell’acquisto presso le biglietterie e controllo del documento d’identità da parte degli stewards agli ingressi, per accertare che l’identità dello spettatore sia conforme al nome indicato sul biglietto nominativo ed evitare l’accesso di soggetti colpiti da Daspo. È vero però che la disciplina della figura dello steward come ausiliario del servizio di controllo ha avuto bisogno di un articolato decreto del ministro dell’Interno in base al Dl 8/ 2007.

Riassumendo, numerose ipotesi di limitazioni all’accesso ad eventi realizzati o a servizi resi in luoghi privati aperti al pubblico esistono tradizionalmente nell’ordinamento italiano e sono state giustificate sia da considerazioni di ordine igienico- sanitario sia anche di sicurezza pubblica. Molte sono state disciplinate da fonte legislativa; altre in via amministrativa, ad inclusione del sistema sanzionatorio. La responsabilizzazione dell’operatore o gestore fa parte delle prescrizioni direttamente o indirettamente inerenti all’esercizio dell’attività economica. Nulla esclude che esse vengano modificate nel tempo in relazione, proporzionale e non eccessiva, rispetto alle esigenze di circostanze che attengono alla sanità od alla sicurezza.

Si potrà obiettare che videogiochi e sigarette elettroniche, dove la disciplina anche sanzionatoria è quasi interamente amministrativa, hanno minore rilevanza sociale ed economica delle attività regolate dall’introduzione del green pass vaccinale. Ma questo sarebbe un discorso fondato su argomenti quantitativi, che non intaccano l’uso tradizionale del sistema delle fonti.

Non vi è dubbio che “i programmi e i controlli” di cui all’articolo 41 della Costituzione sulle attività economiche siano stati adottati per legge, peraltro lasciando spazi a discipline amministrative di dettaglio, estese talora al regime sanzionatorio e persino adottate analogicamente.

Per il green pass è con tutta evidenza impossibile non coinvolgere nei controlli i gestori delle attività economiche al cui accesso si tratta di applicare filtri di natura igienico- sanitaria. Se non altro perché le sanzioni, anche solo amministrative, loro applicabili, difetterebbero altrimenti di qualunque imputabilità. Chi non ha obbligo o almeno onere di controllare non può essere ritenuto responsabile. E d’altra parte le forze di polizia possono essere più utilmente impiegate che non nei bar, nelle sale cinematografiche o di videogiochi, nei ristoranti, se non chiamate a seguito di specifiche problematiche.

Come sempre, il problema è di bilanciamento di interessi pubblici, da effettuarsi, preferibilmente dal legislatore sotto il controllo della Corte costituzionale, in relazione alle circostanze concrete del periodo storico e nel rispetto del rapporto tra mezzi e fini, secondo il sindacato di ragionevolezza e proporzionalità. E la disciplina del green pass sembra allo stato l’unica alternativa all’obbligo vaccinale. Una riflessione più articolata sulle modalità di controllo sarebbe certo opportuna, anche dal punto di vista delle fonti da utilizzare. Non si può dimenticare tuttavia che non meno di undici altri Paesi europei hanno introdotto, anche a prescindere da discipline dell’Unione, misure simili, variamente definite, che comportano disclosure di dati sensibili anche superiore a quella delle modalità italiane e controlli non riservati a forze di polizia.

*ORDINARIO DI DIRITTO COSTITUZIONALE ALLA BOCCONI