Marco Sorbara ha passato 909 giorni in custodia cautelare da innocente. Giorni «terribili», ha dichiarato dopo l’assoluzione l’ex assessore comunale di Aosta e consigliere regionale, appesantiti dal sospetto che la sua carriera politica fosse il frutto di un patto scellerato con la ‘ndrangheta, arrivata fino in Valle d’Aosta per avvelenare ogni cosa. Sorbara, 57 anni, a fine luglio è stato assolto dalla Corte d’Appello di Torino perché il fatto non sussiste, dopo una precedente condanna a 10 anni con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E, soprattutto, dopo mesi di calvario, aggravati dal voltafaccia dei suoi colleghi, che subito dopo l’arresto lo hanno massacrato. In carcere ha trascorso 214 giorni, di cui 45 in isolamento, per poi vedersi concedere i domiciliari, prima di essere assolto. «Un periodo drammatico», dice oggi suo fratello Sandro, che da avvocato lo ha difeso in aula producendo una marea di documenti e come familiare ha vissuto il dramma di una famiglia travolta dagli eventi. «Per mia mamma sono state necessarie cure psicologiche continue per riuscire a reggere questa gravissima ingiustizia che ha colpito come un fulmine una famiglia nata e cresciuta con sacrifici e onestamente - racconta -. Ora mio fratello è stato completamente assolto, ma il devastante dramma di un gravissimo errore giudiziario nessuno potrà cancellarlo. Una vita distrutta psicologicamente ed economicamente per il nulla più totale».

L’arresto di Marco Sorbara

Sorbara viene portato via dalla sua casa il 23 gennaio 2019, assieme ad una decina di persone, tutte coinvolte nell'operazione "Geenna", la valle maledetta simbolo dell'inferno. Quando i carabinieri bussano alla sua porta il primo pensiero è terribile: «Ho pensato a un incidente di mio fratello», confida dopo l’assoluzione al Corsera. Invece cercano proprio lui, accusandolo di essere sceso a patti con i clan. La Dda di Torino è sicura di aver snidato gli ‘ndranghetisti della Valle d’Aosta, collegati alle famiglie più pericolose della Calabria. E in questo contesto - confermato dalle sentenze, secondo le quali ad Aosta era operativa una locale capace di esercitare un forte controllo sull'elettorato calabrese -, Sorbara sarebbe stato uno degli uomini politici che dell’appoggio dei clan avrebbe usufruito «per tornaconto personale», risultando il primo per preferenze e restituendo il favore strizzando l’occhio ai malavitosi. Secondo la Dda, infatti, avrebbe confidato informazioni riservate, accettando “consigli” sul suo operato, dai componenti della “locale” cittadina, in particolare dal ristoratore Antonio Raso. Un’accusa devastante per lui, che all’improvviso vede il suo mondo crollare: in carcere, sospeso dall’ordine dei commercialisti e rifiutato dalle banche, così come anche sua madre.

Ascesa e caduta di un politico di punta

Eletto nel 2010 in Consiglio comunale ad Aosta nella lista dell’Union Valdôtaine, viene confermato alle elezioni del 2015, ricoprendo il ruolo di assessore alle politiche sociali fino al maggio 2018, quando entra in Consiglio regionale sempre nella lista dell’Uv. In carcere Sorbara piomba nella disperazione e pensa anche al suicidio. E intreccia anche il lenzuolo, convinto di affidare a quello il dolore e farla finita una volta spente le luci. Ma resiste, convinto della sua innocenza. In carcere perde molti chili, scrive tantissimo, legge 105 libri, attende di tornare a casa e che la verità venga fuori. Ci spera, quando a luglio la Dda di Torino dà parere favorevole agli arresti domiciliari, dal momento che «le esigenze cautelari sono affievolite e possono essere adeguatamente fronteggiate con una misura meno grave». Ma il gip non ci sta, decidendo che non c'è altra misura adeguata e diversa dal carcere. Dopo essersi sentito dire cinque volte “no”, però, Sorbara riesce a tornare a casa, ad agosto 2019. Intanto, però, sono passati sette mesi e un giorno quando il Riesame accoglie finalmente la richiesta dei suoi avvocati.

Il processo

A casa sua il politico studia il suo caso, raccolto in 42 faldoni assieme alle vite degli altri imputati. Il primo grado, ad Aosta, si chiude il 16 settembre 2020: Sorbara viene condannato a 10 anni di reclusione e nella sua vita si affaccia di nuovo l’ipotesi di farla finita lanciandosi giù dal balcone. Desiste ancora una volta, ma la speranza a tratti vacilla. Durante il periodo trascorso ai domiciliari viene autorizzato a lavorare. Ma non può più fare il commercialista e dunque si procura un lavoro come magazziniere, riuscendo a trascorrere fuori casa tre giorni a settimana. «Sin dall’inizio abbiamo dimostrato che tutto l’impianto accusatorio non aveva alcun fondamento, già dalla lettura del capo di imputazione - spiega Sandro Sorbara -. Mio fratello, fin da subito, mi ha detto di essere innocente e ci ho creduto ciecamente. Il suo elettorato era riconoscibilissimo: è sempre stato in mezzo alla gente, tra gli anziani, a cui serviva la cena a Natale e capodanno, è un ex sportivo. Le testimonianze in aula sono state chiare: lo hanno descritto tutti come un uomo del popolo». Ma soprattutto sono le prove quelle che mancano, spiega l’avvocato. «Faccio un solo esempio: subito dopo l’inchiesta, al Comune di Aosta è arrivata una Commissione d’accesso per verificare eventuali infiltrazioni mafiose, prendendo a dettaglio l’ordinanza di custodia cautelare - spiega -. Secondo l’accusa, Raso (Antonio, condannato a 10 anni ndr), tramite mio fratello, si sarebbe infiltrato nell’amministrazione per ottenere appalti. Ecco, l’amministrazione non è stata sciolta, perché non sono stati riscontrati elementi di infiltrazione». Nella relazione, infatti, viene certificata una situazione «caotica», non riconducibile, però, «ad una connivenza tra il “locale ‘ndranghetista di Aosta» e l’amministrazione. Sorbara ripropone tutte le argomentazioni già usate in primo grado, ma mai prese in considerazione dai giudici. «L’ho detto anche durante la discussione in appello - sottolinea il legale -, non pensavo, dopo 20 anni di professione, di leggere una sentenza piena di termini denigratori. I giudici hanno perfino deriso mi fratello, che in aula ha spiegato di come nostro padre fosse arrivato dalla Calabria con la valigia di cartone. Non hanno citato nessuna delle testimonianze, senza valorizzare il pignoramento che mio fratello aveva fatto alla famiglia di cui, secondo l’accusa, avrebbe avuto paura».

Famiglia distrutta

Marco Sorbara ora pensa a riprendersi. Ma ha già deciso, dopo aver vissuto l’esperienza del carcere, di avviare un percorso di sostegno per chi, invece, vive dietro le sbarre. «Lui poteva contare su di me non solo come avvocato, ma anche come fratello - conclude -, ma cose del genere non dovrebbero verificarsi più. Questa storia ha distrutto la mia famiglia. Bisogna lottare per il principio della presunzione d'innocenza e il corretto vaglio delle esigenze cautelari e l'applicazione legittima della custodia cautelare, in conformità ai principi scolpiti nel nostro ordinamento giuridico»».