È passata poco più che tra le brevi di cronaca la definitiva radiazione del dott. Luca Palamara dalla Magistratura italiana. Conosco da decenni quel magistrato e sento innanzitutto il bisogno di esprimergli pubblicamente un pensiero di vicinanza ed amicizia in un momento di immaginabile, profonda amarezza e solitudine. E ciò tanto più ora che tutti gli ossequienti amici e colleghi, petulanti sollecitatori di attenzioni e prebende di ogni sorta, hanno voltato le spalle, fuggendolo come un appestato, a colui che essi hanno in assoluta maggioranza liberamente scelto perché esprimesse -per quasi un decennio!- il vertice della magistratura associata. Ma l’atto finale di questo ad un tempo feroce e grottesco rito esorcistico non poteva scegliere momento migliore che ne esaltasse, in un’abbacinante controluce, l’insostenibile paradosso. Si applaude infatti a quella radiazione mentre la magistratura italiana, fin nei sancta sanctorum che l’hanno eroicamente rappresentata per decenni, è dilaniata -ed anzi, si dilania- tra ricorsi e controricorsi al TAR che delegittimano vertici di Procure importantissime, volantinaggi di verbali di indagine (in word, a quanto pare fa la differenza), giudici che nelle sentenze accusano i pm di aver nascosto prove a favore dell’accusa, altri che lumeggiano favori a presunte loggette massoniche, altri ancora che tolgono fascicoli al gip se questi respinge le richieste della Procura, mentre un provvedimento disciplinare proposto dalla Procura Generale della Cassazione viene respinto a furor di popolo magistratuale, che insorge pubblicamente, solidale con il proscrivendo PM, due giorni prima della decisione del CSM. Insomma, mentre prende corpo con inquietante precisione la ben nota profezia (o piuttosto anatema) di Francesco Cossiga (“finiranno ad arrestarsi tra di loro”), la magistratura italiana non trova di meglio da fare che espellere con disonore il suo già segretario nazionale, Presidente Nazionale ed infine Consigliere Superiore. Sarà bene ricordare i termini nei quali quell’accusa disciplinare è stata accortamente sagomata. Il dott. Palamara non viene processato ed espulso per essere stato l’incontestato ed anzi incensato interprete di un sistema degenerato di correnti e di potere (con annesse, frenetiche attività di “autopromozione” delle carriere), cioè per quei comportamenti che indignano l’opinione pubblica e ne sollecitano la più ferma censura; ma per avere, nella specifica occasione della imminente nomina del Procuratore Capo di Roma, coinvolto in alcune riunioni serali, perfettamente identiche a centinaia di altre tenutesi per centinaia di altre nomine per decenni, anche un politico in quel momento indagato da quella stessa Procura, e dunque indebitamente interessato alla manovra. Così, il dedalo inestricabile di chat, incontri, pranzi, cene, raccomandazioni di ogni risma, che ha riguardato un impressionante numero di magistrati di tutta Italia e pressoché le nomine di tutti i vertici degli uffici giudiziari del Paese negli ultimi dieci anni almeno, è rimasto prudentemente fuori da ogni censura disciplinare. Lì, se male non ho compreso, ce la siamo cavata con il mea culpa, e l’impegno morale ed etico al riscatto. Lo scandalo Palamara, quello che merita la radiazione (e solo la sua), è l’interlocuzione con il politico inquisito e dunque presumibilmente interessato a quella specifica nomina. Non mi intendo di giustizia disciplinare, ma converrete con me che questo esito appare francamente paradossale. Non voglio cadere in semplificazioni eccessive, comparando fatti e comportamenti così, un po' alla carlona. Ma insomma, mi verrebbe difficile provare un sentimento di censura inferiore a quello che devo certamente riferire alle cene promiscue all’Hotel Champagne, se mi trovassi a giudicare - chessò, faccio il primo esempio che mi viene a tiro - pubblici ministeri che sottraggano al Giudice (al Giudice!) prove o principi di prova della indole calunniosa del principale teste di accusa. Forse saprete che tra le tante fesserie che ci vengono propinate per contrastare l’idea della separazione delle carriere, va molto di moda quella della cultura della giurisdizione (cioè della prova) che deve animare il P.M., tanto più che una norma lo obbliga (lo obbligherebbe, meglio) a raccogliere prove anche a favore dell’indagato (“ciao core”, chioseremmo romanescamente). Ora, se un PM, sollecitato per di più da un collega del suo stesso ufficio ad approfondire la calunniosità del principale teste di accusa, dice più o meno: “beh no, prima portiamo a casa la sentenza di condanna e salviamo l’inchiesta, poi si vede”, commette un fatto così sideralmente, incomparabilmente meno grave delle cene del dott. Palamara all’hotel Champagne? Evidentemente è così, non c’è che dire, non c’è altra spiegazione. O c’è?