Con la solita franchezza consentitami da un giornale le cui insegne culturali e civili sono il dubbio e il conseguente garantismo debbo dirvi che più leggo l’elenco dei reati esclusi formalmente o di fatto, con presunti “aggiustamenti tecnici”, dalla “improcedibilità” preferita alla prescrizione dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nei passaggi in appello e in Cassazione, meno mi convinco dell’” addio” volenterosamente o ottimisticamente annunciato al “fine processo mai”. O alla figura barbarica dell’imputato a vita. E più mi verrebbe voglia di dare ragione, una volta tanto, al Fatto Quotidiano con quel titolo di prima pagina su “Cartabia& C.” che “cedono” a Conte, riuscito quanto meno a “limitare i danni”, dal suo punto di vista, derivanti dalla riforma del processo penale all’esame della Camera.

Potrei, sempre una volta tanto, condividere anche il fotomontaggio del giornale diretto da Marco Travaglio in cui il pugno destro dell’ex presidente del Consiglio è infilato in un guantone rosso da pugile e Draghi e Cartabia hanno l’occhio destro livido e occultato con una lente nera.

Dirò ancora di più. Sempre una volta tanto, immedesimandomi in un elettore di quelli ai quali si rivolge con l’aria del consigliere e del protettore il direttore del Fatto Quotidiano, potrei condividere la sua lettura delle decisioni prese dal Consiglio dei ministri dopo le convulse trattative sulle modifiche alle modifiche del governo alla riforma del processo penale. In particolare, Travaglio ha scritto che “i pericoli peggiori ( anche se non tutti) della schiforma Cartabia sembrano sventati: basta confrontare il testo originario con quello stravolto dall’accordo di ieri. I 5 Stelle, dopo mille cedimenti e sbandate, ridanno agli elettori un motivo per votarli”.

Che cosa dovrebbe fare allora uno come me, che non ha mai votato e tanto meno condiviso le aspirazioni di un movimento come quello delle 5 stelle, neppure le istanze all’onestà perché contraddette spesso dalla pratica dei loro portavoce e dall’arbitraria applicazione della disonestà a comportamenti legittimi? Dovrebbe aggiungere il presidente del Consiglio e la ministra della Giustizia in carica, con tutto il loro prestigio, e la loro storia professionale alle spalle, al lungo elenco degli opportunisti o dei pavidi che hanno fatto mettere la politica, il Parlamento, la democrazia e chissà cos’altro sotto i piedi di una certa magistratura stravolgendo la Repubblica, sino a renderla più giudiziaria che parlamentare? E, di conseguenza, avendo presuntivamente tutti fallito nell’azione di contrasto a questo andazzo cominciato tanti anni fa, forse ancor prima della famosa Tangentopoli esplosa nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa a Milano, aderire al vero partito di maggioranza che è diventato quello delle astensioni? Beh, non ci penso neppure.

A costo di apparire ingenuo, superato lo sgomento iniziale, sono invece tentato dalla volontà di giustificare in qualche modo sia Draghi sia Cartabia con le ragioni superiori della lotta alla pandemia e delle altre emergenze per fronteggiare le quali è stato formato l’attuale governo. Penso allo scrupolo, forse anche incoraggiato dietro le quinte dal presidente della Repubblica ormai in semestre cosiddetto bianco, senza possibilità di sciogliere le Camere, di evitare una crisi da irresponsabilità dei grillini. La cui esplosione finale si è forse preferito a Palazzo Chigi ritardare al momento in cui si potrà davvero tornare alle urne e farla finita con questa legislatura appesa dal primo momento agli umori e ai problemi tutti interni ad un movimento nato e cresciuto allo scopo, neppure tanto nascosto, di destabilizzare un sistema che già di suo era in notevole sofferenza.

Mi piace pensare - magari illudendomi, ripeto, e facendo la figura dell’ingenuo che Draghi e Cartabia abbiano voluto mettere in sicurezza quel poco della loro riforma - altro che la “schiforma” denunciata da Travaglio e contrastata da Conte nel suo rodaggio di presidente del MoVimento 5 Stelle designato, prima bocciato e poi recuperato da Grillo - e scommettere pure loro sui sei referendum sulla giustizia promossi da leghisti e radicali. Cui a questo punto, dopo l’adesione dei cinque consigli regionali previsti dalla Costituzione, non sarebbero più necessarie neppure le 500 mila firme anch’esse richieste dalla Costituzione. Più della metà delle quali comunque sono state già raccolte, a dimostrazione di quanto le prove referendarie siano condivise dall’opinione pubblica: tanto condivise quanto osteggiate dall’ala più militarizzata, diciamo così, della magistratura e dai partiti, correnti, giornali eccetera che la fiancheggiano.

Sono passati ormai troppi anni dal 1987 e successi troppo guai da allora, a scapito della Giustizia con la maiuscola, per pensare che possa ripetersi - magari con Draghi ancora a Palazzo Chigi e la Cartabia guardasigilli - ciò che accadde 34 anni fa, quando la responsabilità civile dei magistrati, per esempio, fu reclamata dalla stragrande maggioranza degli elettori referendari e sostanzialmente negata, dopo pochi mesi, in una legge che avrebbe dovuto semplicemente disciplinarla.

Per non sbagliare o essere più semplicemente coerente con ciò che ho scritto, appena trasmesso questo articolo al Dubbio andrò a firmare, alla prima postazione più vicina a dove mi trovo, i moduli di tutti i referendum in cantiere. Dei quali non deploro ma apprezzo che si siano convinti gli stessi o gli eredi di quei leghisti che il 16 marzo 1993 si unirono ai forcaioli applaudendo o incoraggiando con risate il loro collega deputato Luca Leoni Orsenigo che ostentava un cappio nell’aula di Montecitorio.