«Rilevanti e drammatiche potrebbero essere le ricadute pratiche» della nuova prescrizione, che prevede l’improcedibilità, «in ragione della rilevante situazione di criticità di molte delle Corti d’appello italiane». È questo l’allarme contenuto nel parere sulla riforma del processo penale elaborato sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura e che sarà giovedì all’esame del plenum. Un parere diviso in due parti, la prima delle quali si concentra proprio sul punto più discusso dalla riforma, oggetto di fibrillazioni interne all’esecutivo, soprattutto per la difesa strenua, da parte del M5S, della norma blocca- prescrizione voluta da Alfonso Bonafede.

La riforma, secondo la sesta Commissione, «presenta numerosi profili di criticità», dal momento che l’improcedibilità entrerebbe in frizione, in primo luogo, «con il principio di obbligatorietà dell’azione penale», rappresentando una «ingiustificata e irrazionale rinuncia dello Stato al dovere di accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità sul piano penale, rispetto ad un reato certamente non estinto». Insomma, nonostante «la persistente obbligatorietà dell'azione penale», la stessa non potrebbe più essere esercitata. Ma la norma, secondo il Csm, violerebbe anche il principio di uguaglianza.

E per spiegarlo, la Commissione tira fuori un esempio paradossale. Supponendo che il giudizio di primo grado di un processo per fatti puniti con pene elevate «sia durato dieci anni e che la sentenza sia intervenuta prima della prescrizione del reato - si legge nel parere -, la causa di improcedibilità non si avvererebbe se il giudizio di appello fosse, comunque, definito in due anni e quello di Cassazione entro un anno: dunque, un processo durato tredici anni si potrebbe concludere, comunque, con una condanna definitiva». Dall’altra parte, nel caso in cui, per lo stesso fatto, il processo di primo grado fosse definito in pochi mesi, una durata in appello superiore ai due anni comporterebbe l’improcedibilità dell’azione, con la conseguenza che «un processo durato poco più di due anni dovrebbe essere definito senza accertamento del fatto e con una sentenza di non doversi procedere». Conseguenze «palesemente irragionevoli», secondo il Csm, che determinerebbero «una sperequata attuazione concreta del diritto alla ragionevole durata del processo».

Ma anche l’eccezione prevista per i delitti puniti con l’ergastolo rischia, secondo la Commissione, «di creare notevoli inconvenienti sul piano pratico». L'assenza di un termine per la definizione del giudizio di secondo grado, data la situazione drammatica di alcune Corti d’appello, «porterebbe, infatti, in specie se l’imputato non fosse detenuto, a postergare la trattazione di questi giudizi oltre il termine di due anni, con l’eventualità, in caso di esclusione della sussistenza di una delle aggravanti che determinano la pena dell’ergastolo, di dover poi dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale». I dati parlano chiaro: in almeno 10 Corti d’appello su 29 ( stando ai dati pre- covid), il disposition time supera i due anni. I tempi medi registrati negli ultimi anni per un processo d’appello oscillano, dunque, tra i quattro e i cinque anni, motivo per cui, secondo Palazzo dei Marescialli, «la previsione di un termine di durata pari a due anni ( uno nel giudizio di Cassazione), prorogabile solo in casi determinati e per tempo breve, finirebbe per non essere allineata neppure con il dato reale». Tre anni in appello, stando al parere, sarebbero dunque una soluzione più coerente, con possibilità di proroga di due anni «in modo da allineare la previsione normativa al dato reale registrato in molte realtà giudiziarie territoriali».

Insomma, se proprio risulta necessario contingentare i tempi dell’appello, meglio farlo rimanendo fedeli alla media attuale, pur se drammaticamente superiore a quella europea. Anche perché per migliorare la situazione, secondo il Csm, sarebbe necessario intervenire aumentando il personale amministrativo e togato, migliorando l’edilizia giudiziaria, l’informatizzazione degli uffici e attraverso un’azione di deflazione della materia penale con «una razionale opera di depenalizzazione», pena una estremizzazione delle difficoltà di uffici già in sofferenza. L’improcedibilità, secondo il Csm, produrrà anche un altro effetto: l’aumento del numero delle impugnazioni, «con conseguente aggravio del carico di lavoro degli uffici giudiziari di secondo grado e di legittimità».

Critiche anche sulla cosiddetta “discovery coatta” in caso di mancato esercizio dell’azione penale o di mancata richiesta di archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari ordinarie e di sei mesi per i casi più complessi. Un rimedio che, agli occhi dei consiglieri del Csm, «sembra non velocizzare la conclusione della fase in questione, né garantire maggiormente l’indagato e la persona offesa e rischia inoltre di incidere in maniera assai consistente sulle scelte del pubblico ministero, sino a vanificare l’esito di sforzi investigativi impegnativi». Così come arriva il niet sulla possibilità, per il Parlamento, di definire dei criteri di priorità nella trattazione degli affari. Ciò, secondo il Csm, rischia infatti di sbilanciare «l’attuale assetto dei rapporti tra i poteri dello Stato», in quanto il potere legislativo potrebbe così «orientare» la funzione giudiziaria sulla base dei valori delle maggioranze politiche del momento. Ciò che conta, invece, è «la condizione oggettiva dell’ufficio e della realtà criminale insistente nel territorio ove esso si colloca». E così facendo, i criteri di priorità, «da mero strumento di organizzazione dell’attività interna degli uffici requirenti, diventeranno una modalità per orientare la funzione giurisdizionale verso il conseguimento di specifici obiettivi di politica criminale».