C’ è un nesso sottile, un filo che lega alcuni segni inquietanti. Gaetano Sassanelli, avvocato protagonista da anni della vita istituzionale e associativa forense, trova una linea di congiunzione tra violenze sui detenuti, indifferenza al diritto di difesa e propaganda giustizialista. «Si raccoglie ciò che si è seminato per anni», dice il professionista che rappresenta l’avvocatura nel Consiglio giudiziario di Bari e che nel capoluogo pugliese è stato anche presidente della Camera penale, oggi guidata da Guglielmo Starace. Sassanelli ne parla anche a partire da casi recenti che lo hanno personalmente coinvolto sul piano professionale, in particolare nelle interlocuzioni con l’istituto penitenziario di Agrigento.

Prima ancora delle violenze, i detenuti subiscono spesso l’indifferenza. Certe disattenzioni possono essere ascrivibili a un più generale decadimento, nell’amministrazione penitenziaria e nell’apparto pubblico in generale, del senso delle garanzie? Può esserci una pur indiretta “connessione genetica” fra le violenze sui reclusi e quelle disattenzioni?

Come sempre, si raccoglie quel che si è seminato e purtroppo ultimamente si è seminato molto ma molto male, innescando una degenerazione del metus publicae potestatis che, come evidenziato anche dal professor Manes, ha coinvolto finanche il lessico giuridico, introducendo termini come “spazzacorrotti” che vorrebbe intendere lo sterminio civile di determinate classi d’autore, o “certezza della pena” che vorrebbe significare certezza del carcere. Ed è ovvio che, se la massima espressione del potere esecutivo nel settore giustizia si rende portatore di questi messaggi, non possono che conseguirne comportamenti come quello delle forche caudine verificatosi a Santa Maria Capua Vetere. Del resto non è un caso che il ministro della Giustizia dell’epoca, che si deve presumere parli sempre a ragion veduta, in risposta ad una interrogazione parlamentare sui fatti accaduti all’interno del reparto “Nilo”, abbia risposto affermando che si è trattato di una “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”.

Nel sistema carcerario le violenze sui reclusi non rappresentano il solo aspetto preoccupante. Basti pensare alle difficoltà nell’esercizio del diritto di difesa da parte dei reclusi, e dei loro legali. Di recente lei ne ha avuto prova anche per alcune difficoltà di “comunicazione” col penitenziario di Agrigento.

È naturale che il raccolto di quelle semine di cui dicevo non possa che essere il disprezzo per i diritti ed ancor più per le garanzie dei detenuti. Se le istituzioni ai massimi livelli proclamano che i cittadini assolti sono solo imputati che l’hanno fatta franca, cosa volete che un agente di polizia penitenziaria, privo, non per sua colpa, della minima cultura giurisdizionale, possa ricavarne? Ed è quindi conseguenziale che il disprezzo per il mondo dei reclusi, reputati figli di un Dio minore, si riverberi anche sul diritto di difesa. Proprio in questi giorni sto vivendo un’esperienza mortificante per il diritto di difesa, letteralmente neutralizzato per un imputato detenuto ad Agrigento. Trattandosi di un nuovo assistito, coinvolto in processi gravi e complicati, dal 13 giugno sto inondando quel carcere di richieste per un video- colloquio a distanza, tutte rimaste prive di qualsivoglia riscontro, nonostante ordinanze perentorie in tal senso della stessa Autorità giudiziaria. Si ha la sensazione di scontrarsi contro un muro di gomma, al quale puoi indirizzare mail ordinarie, pec, telefonate, tutti tentativi che rimbalzano senza alcuna risposta, o un cenno, pur se negativo, di considerazione. E tutto questo mentre le udienze dei processi continuano a svolgersi, senza però essermi potuto confrontare con il cliente. Situazione che, come è facile comprendere, non consente un compiuto esercizio del diritto di difesa e che sembra rientrare in una precisa strategia: collocare l’imputato a notevole distanza dal luogo di celebrazione dei processi, in maniera da imporre più giorni di viaggio per un colloquio difensivo e contemporaneamente ignorare le richieste di colloquio a distanza del difensore. Del resto non è l’unico caso che vede rimanere inevase anche ordinanze dei Giudici: di recente mi è capitato pure che una richiesta di documentazione sanitaria formulata dall’Autorità giudiziaria per un indagato, malato grave e detenuto a Milano, nonostante i ripetuti solleciti della cancelleria, abbia impiegato mesi per essere evasa, pur a fronte di un provvedimento del Giudice che disponeva la trasmissione entro 48 ore della documentazione già richiesta mesi prima.

Su questa diminuita ai diritti dei detenuti può aver pesato anche la durissima campagna condotta da alcuni organi di informazione, e da alcuni magistrati, contro le cosiddette, e fantomatiche, “scarcerazioni di massa dei boss”?

Quanto accaduto all’epoca, ha segnato una bruttissima pagina di cronaca giudiziaria per il nostro Paese, segnando il ritorno al medioevo del diritto penale. In quella circostanza, infatti, il legislatore è entrato nelle camere di consiglio dei Giudici per modificarne le decisioni adottate per l’emergenza sanitaria in atto, sull’onda emotiva delle polemiche giornalistiche create da professionisti del panico, lanciando un messaggio forte e chiaro, secondo il quale le carceri sono una discarica umana della nostra società, dove relegare soggetti legibus solutus all’inverso, ovvero “sciolto dalle leggi” perché privo di diritti, anche di quelli costituzionalmente tutelati, come il diritto alla salute.

Ha fiducia in un’iniziativa dell’attuale ministra della Giustizia Cartabia in materia di diritti dei detenuti e miglioramento immediato delle condizioni di chi deve comunque espiare una pena? Crede cioè che sarà possibile portare a compimento quella parte della riforma Orlando rimasta in sospeso?

Il profilo altissimo dell’attuale ministro della Giustizia è esattamente quel che ci voleva per riportare al centro il rispetto della dignità umana e il recupero del senso di umanità ormai smarrito dopo la gestione Bonafede. Certo, la Giustizia è sempre un tema politicamente scivoloso, ma se non si comprende che la crisi del processo in Italia è politica, ed è politica perché è culturale, ed ancora, è culturale perché è valoriale, non ne verremo mai più fuori. È quindi imprescindibile impegnarsi per recuperare i valori fondanti del nostro Paese. Se non ci riusciamo con un ministro già presidente della Corte costituzionale, allora forse dovremo dimenticarci una volta per tutte, di esser stati il Paese di Beccaria e che, come ci insegna Aharon Barak, in una democrazia la lotta al crimine deve procedere sempre con una mano legata dietro la schiena, anche di fronte alle emergenze criminali più allarmanti.