Al solo pronunciare il nome della moglie, scomparsa qualche giorno fa, Emilio Fede si commuove; interrompe la conversazione per poi riprendere a parlare con la voce chiara, proprio come quando conduceva il suo telegiornale. Pochi giorni fa, a Napoli, il padre del Tg4, oggi novantenne, ha partecipato ai funerali della moglie, Diana De Feo. La polizia, nel cuore della notte, ha voluto accertarsi che fosse presente nel luogo in cui solitamente soggiorna nel capoluogo partenopeo, dato che sta scontando una pena a quattro anni e sette mesi per il coinvolgimento nel “caso Ruby” e per spostarsi ha bisogno dell’autorizzazione del Tribunale di Sorveglianza. Fede in questa intervista al Dubbio dice di essere stato «colpito ma non ferito dalla giustizia». Al tempo stesso vuole continuare a credere che a servirla ci siano uomini e donne in toga preparati professionalmente e animati da profonda umanità. Direttore Fede, come sta? «Sono alla ricerca di un Emilio perduto. Il vuoto lasciato dalla mia adorata Diana è incolmabile. Piangerò la sua scomparsa fino alla fine della mia vita. Un piccolo conforto deriva dalle parole nobili che sono state spese nei suoi confronti nel ricordarla il giorno del funerale. Diana è stata una donna straordinaria da un punto di vista umano e professionale». La sua esperienza con la giustizia italiana è molto pesante? «In questa mia esperienza ho conosciuto una persona, la dottoressa Panariello, che per tanto tempo ha gestito le persone ai servizi sociali. È una donna straordinaria, siciliana come me. Quando sono finito anche io nel calderone dei domiciliari mi ha convocato. Mi ha parlato per mezz’ora e mi ha detto delle cose di grande affetto ed effetto. Al termine di quell’incontro mi ha regalato un libro, “I leoni di Sicilia”. Mi ha detto: “Fede, lo legga”. Questa donna straordinaria evidentemente ha sempre portato sotto la toga un cuore e non soltanto un codice penale. Ha fatto molto per la giustizia e per coloro che si sono imbattuti nella giustizia non sempre senza sofferenze». Si è verificato un accanimento nei suoi confronti? «La giustizia mi ha colpito, ma non mi ha ferito. Sempre la dottoressa Panariello, dopo un colloquio fatto con lei, mi disse: “Fede, adesso prenda il bastone e cammini. Lei è libero di camminare, rispettando la giustizia”. Questa frase mi viene sempre in mente nell’esperienza che sto vivendo. Ma mi vengono in mente anche altre cose. L’onda delle parcelle con tanti zeri. Sia ben chiaro che anche in quel settore ci sono tanti professionisti che meritano rispetto. Sia altrettanto chiaro che in alcune situazioni è stata fatta una mortificazione terrificante dell’essere umano. Quest’ultimo, però, dimostra sempre grande forza. È in grado di resistere alla giustizia e all’ingiustizia. Gli avvocati, molti, non tutti, hanno trascurato la parcella e hanno lavorato per la giustizia. Io li ringrazierò per tutta la vita. Ma voglio fare un’altra riflessione». Prego, dica pure… «La giustizia per affermarsi non deve subire gli sprechi dell’onestà. Non si faccia della carta bollata un momento di mortificazione. Io ero e rimango molto rispettoso verso la giustizia, ricordando soprattutto coloro che per servirla hanno pagato con la vita. Quando si va in tribunale e si guardano le persone in toga, ci si deve ricordare delle persone che hanno difeso la giustizia sacrificando la propria vita. Come del resto accaduto per tanti giornalisti. Adesso è il momento in cui la giustizia è sui trampoli e si fanno tante considerazioni. Io, tornando alla mia esperienza, sono stato mortificato in occasione dei funerali di mia moglie a Napoli». Crede ancora nella giustizia? «Ci credo. Penso però che debba rispettare i condannati intesi come essere umani. Le riflessioni sulla detenzione si fanno sempre più profonde. Penso alla vita di chi in cella vede trascorrere gli anni della propria vita con grande sofferenza fisica. Il momento di dolore che sto attraversando mi fa ritornare alla mente chi, come la dottoressa Panariello, ha rappresentato una luce e mi ha dato speranza nella giustizia, che non è solo il volto delle parcelle. Credo e spero che la giustizia abbia un volto umano. E non si dimentichi di chi in carcere soffre, condannati o in attesa di giudizio. Ho molti amici nella magistratura. Ho avuto modo di confrontarmi con alcuni di loro, come Davigo e Colombo. Ho sempre cercato di capire che la giustizia si deve affermare ma non sacrificando la vita delle persone. La giustizia è tale quando, prima di tutto, rispetta sé stessa. Lo deve fare in nome dei magistrati, degli avvocati e dei giornalisti che si sono battuti contro la mafia. Per coloro che si battuti per portare la giustizia alla ribalta e non alla supplica o alla concessione di bontà».