Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro e presidente dell’associazione Lavoro& Welfare, ritiene necessaria una proroga del blocco dei licenziamenti «per otto, nove settimane», perché «la situazione nel Paese è più critica di quello che si vuol far credere».

Onorevole Damiano, come si inserisce la morte del sindacalista nella situazione occupazionale del nostro paese?

Il fatto accaduto è gravissimo e denota l’esistenza di un clima deteriorato, sul quale sicuramente pesa questa lunga situazione di crisi. Abbiamo una persona, un lavoratore, che muore, e altri due lavoratori feriti nel corso di un’iniziativa di carattere sindacale, quindi la condanna deve essere totale. Questo mi spinge a dire che non vorrei che la giusta necessità di ripartire, con una crescita che alcuni dicono sarà impetuosa, privilegi esclusivamente il dato quantitativo e faccia chiudere gli occhi sull’esigenza di dialogo, di inclusione sociale, di equità, di rispetto dei contratti, dei diritti e della salute psicofisica delle persone.

Cosa si dovrebbe fare per migliorare le cose?

Si parla di una transizione ecologica e digitale e di un ammodernamento delle infrastrutture materiali e immateriali: vorrei si parlasse anche di una transizione sociale e di un nuovo paradigma di sviluppo che non sia in continuità con ciò che abbiamo vissuto fino all’arrivo della pandemia. Una crescita come quella prevista del 4 o 5 per cento, non necessariamente sarà omogenea, e sicuramente produrrà i suoi benefici in un periodo medio- lungo. Bisogna quindi evitare, nell’immediato che ci siano “morti e feriti”.

Si riferisce alla fine del blocco dei licenziamenti. Pensa che produrrà una “bomba sociale”?

Di cifre ne abbiamo sentite tante, c’è chi parla di alcuni milioni di nuovi disoccupati, con la fine del blocco a giugno; chi, come il presidente di Confindustria, afferma che si tratta “soltanto” di centomila lavoratori. Se anche fosse così, sarebbe comunque un impatto drammatico per quelle famiglie e non vorrei che questo dato oscurasse la ripresa auspicata da tutti. Sarebbe un segnale preoccupante che accentuerebbe i dati negativi che abbiamo fin qui registrato.

Su quale contesto andrebbe a pesare la fine del blocco dei licenziamenti?

Penso alla crescita dei poveri e delle diseguaglianze e al fatto che Istat ci ha ricordato che nel corso del 2020 abbiamo perso circa un milione di occupati, equamente divisi fra tre tipologie di lavoratori: a tempo indeterminato, a tempo determinato autonomi. Essendo le tre platee numericamente diverse, l’impatto maggiore ha colpito con un meno 10 per cento chi aveva un lavoro a termine, all’opposto con un meno due per cento chi lo aveva a tempo indeterminato e con un meno sette per cento la diminuzione ha riguardato il lavoro autonomo. Si tratta di un arretramento vistoso che ha incluso tutte le tipologie di occupazione. Se sommiamo tutti questi dati critici dobbiamo sapere che è tanto più necessario svolgere un’azione inclusiva e a tutela dei più deboli e dei più fragili.

Si ipotizza una fine del blocco divisa per settori. Crede sia la scelta giusta?

Io mi collocherei in una posizione intermedia. I dati relativi alla cassa integrazione elaborati dal centro studi Lavoro& Welfare certificano che nei primi quattro mesi di quest’anno, rispetto ai primi quattro mesi del 2020, l’andamento è differenziato da settore a settore. C’è una diminuzione nella manifattura e nell’edilizia, grazie ad esempio al bonus del 110 per cento, mentre c’è una crescita in settori come commercio e terziario. Quindi la differenza esiste tra chi ha subito di più la crisi e chi si trova in una condizione migliore. La mia proposta si basa su quanto saggiamente aveva detto il ministro Orlando, cioè prevedere un “periodo ponte” per manifattura ed edilizia che duri fino alla fine di agosto, con un blocco dei licenzianti accompagnato alla cassa Covid. Si tratta di prolungare la scadenza di fine giugno di otto/ nove settimane.

Non rischiamo poi di ritrovarci punto e a capo dopo l’estate?

Da settembre, messi al riparo i più fragili, si può procedere per settori, utilizzando come indicatore i dati della cassa integrazione, che sono differenti a seconda delle attività. Un’operazione con otto settimane di cassa covid in più costerebbe meno di un miliardo di euro, perché in linea generale la cassa integrazione è diminuita del 70 per cento nei primi quattro mesi del 2021 rispetto al 2020. Il cosiddetto consumo reale delle ore autorizzate è secondo l’Inps del 50 per cento e il mese di agosto è notoriamente di ferie per la manifattura. Di conseguenza, con poca spesa possiamo fare questa operazione che verrebbe incontro all’esigenza di imprese e lavoratori.

Le posizioni in maggioranza sono diversificate, da quella della Lega a quella del Pd e Leu. Si riuscirà a trovare una quadra?

L’atteggiamento ondivago della Lega non aiuta. Prima non volevano il prolungamento del blocco, poi hanno detto sì a mezza bocca. La mediazione che Draghi ha fatto non è sufficiente. Alcuni onorevoli del Pd, come Carla Cantone, hanno proposto un emendamento che prevede un allungamento più generoso del mio, con 13 settimane di cassa Covid in più. Mi pare che questa sia la strada giusta. Di certo sarebbe controproducente andare allo scontro con le organizzazioni sindacali che manifesteranno su questo argomento il 26 giugno.

In che modo si può percorrere questa strada?

Si può immaginare un decreto ad hoc che metta insieme, da una parte, la preoccupazione di chi vuole tutelare i più deboli e, dall’altra, di chi punta a una ripresa e a un passaggio al blocco dei licenziamenti differenziato per settori. Temo che ci sia una sottovalutazione delle ripercussioni sociali dei temi dell’occupazione. La situazione è più critica di quello che si vuol far credere e non basta dire «ci sarà la ripresa», bisogna difendere dritti, paghe e salute dei lavoratori. Non dimentichiamo che nei primi mesi del 2021 i morti sul lavoro sono cresciuti di quasi il 10 per cento.