In Calabria e in Sicilia ormai lo chiamano “reato di parentela”. Si tratta di una nuova e originalissima fattispecie che trasmette per via genetica il reato commesso da genitori, zii, nonni. Non servono processi, non servono udienze, né serve lo straccio di una prova: basta l’altolà di un prefetto che, in quattro e quattr’otto, ha il potere di mandare in rovina un’azienda sulla base di un semplice sospetto.

Del resto sono anni che la lotta alle mafie giustifica la sospensione di qualsiasi diritto, anche quello della libera impresa, e di qualsiasi garanzia. C’è un pezzo d’Italia che è diventato una sorta di laboratorio politico-giudiziario in cui si sperimenta quotidianamente la contrazione dei diritti costituzionali. Lo scorso anno, solo in Calabria, sono state interdette più di 400 aziende come quelle di Denise che ha raccontato la sua storia sul nostro giornale; il che vuol dire migliaia di disoccupati prodotti in un solo anno e in una sola Regione.

E indovinate un po’ dove va a finire questo esercito di disoccupati? Ma naturalmente finisce dritto, dritto tra le braccia delle mafie che si nutrono della disperazione e del risentimento nei confronti di uno Stato che sa solo punire e desertificare il tessuto economico del Sud Italia. Poi, dopo molti anni, capita che le interdittive si rivelino infondate ma l’azienda, guarda un po’, è fallita già da un pezzo. Insomma ricapitoliamo: il prefetto ferma un’azienda sulla base di un semplice sospetto, l’azienda fallisce, i posti di lavoro evaporano e la mafie diventano sempre più forti. Non c’è che dire: davvero un gran bel risultato da parte dello Stato...