La partecipazione ad uno degli eventi celebrativi dei 50 anni del manifesto, il “quotidiano comunista” orgogliosamente sopravvissuto sia all’espulsione dei suoi promotori dal Pci sia alla fine dello stesso Pci dopo il crollo del muro di Berlino, ha dato a Massimo D’Alema l’occasione di una tardiva ma pur sempre significativa ammissione autocritica sul versante dei rapporti col Psi. Che fu uno dei temi del dissenso a sinistra di cui viveva il giornale degli “eretici”. I quali non condividevano la supponenza - chiamiamola come meritava- del Pci verso il Psi persino ai tempi di Francesco De Martino, prima che arrivasse a guidarlo col garofano in mano quell’"intruso" come veniva considerato Bettino Craxi. Di cui infastidì i comunisti anche il fatto che fosse riuscito a strappare alla Dc nei rapporti di alleanza politica ciò che De Martino ammise poi di non avere osato neppure immaginare di poter chiedere: la guida socialista di un governo di coalizione.

Alla buonanima di Luigi Pintor che nel 1983, scrivendo della voglia di chi militava a sinistra di “non morire democristiani”, esortava i comunisti a cambiare musica col Psi da 7 anni ormai a direzione craxiana, D’Alema ha riconosciuto di avere ragione, e torto lui a “indignarsi” nel leggerlo.

Ma ciò avvenne anche più avanti, in quelli che Andrea Carugati, sempre sul manifesto, ha definito “gli anni della transizione post- Pci”. Che furono intossicati dai propositi di annessione intravisti, a torto o a ragione, dai comunisti nella prospettiva dell’” unità socialista” lanciata da Craxi dopo il crollo del muro di Berlino e dalla voglia irrefrenabile, persino scomposta, di difendersene cavalcando le difficoltà giudiziarie, a dir poco, del Psi alle prese con Tangentopoli. Di cui il sindaco non poteva che essere socialista, vista la direzione preferenziale assunta dalle indagini giudiziarie.

Nei rapporti estremamente conflittuali fra i due partiti maggiori della sinistra, in cui Achille Occhetto usò come una clava la “questione morale”, D’Alema ha riconosciuto con gli amici o compagni del manifesto che “i torti non erano tutti di una sola parte”. Ma lui, obiettivamente, quando decise di sostituire Occhetto alla segreteria del Pds- ex Pci non fece gran che per migliorare le cose. Gli venne addirittura attribuita una volta, a commento di uno dei tanti tentativi dei socialisti di tornare con le proprie forze in Parlamento, la battuta che non bisognasse fargliene tornare la voglia o l’abitudine.

Magari non sarà stata vera, come tante altre battute al vetriolo attribuite a D’Alema e da lui smentite, a cominciare dalla liquidazione di Romano Prodi e Walter Veltroni come “flaccidi imbroglioni”, ma molti la presero almeno per verosimile conoscendo gli umori dell’uomo.

Il fatto è che, a parte gli “eretici” del manifesto all’esterno, per molto tempo gli unici fra i comunisti e post- comunisti a consentirsi un linguaggio e uno stile non esasperato nei rapporti con i socialisti furono i cosiddetti “miglioristi”. Che anche per questo erano considerati la minoranza d’obbligo del partito, non qualificata a guidarlo neppure quando, caduto il comunismo, furono cambiati nome e simbolo della formazione politica.

Lo stesso arrivo del migliorista Giorgio Napolitano al Quirinale nel 2006 avvenne per decisione più esterna che interna ai democratici di sinistra, per impedire che vi giungesse proprio D’Alema, al quale sembrò ad un certo punto che fosse disposto a dare una mano persino Silvio Berlusconi, consigliato in quella direzione da Giuliano Ferrara ma sottrattosi alla tentazione all’ultimo momento con una telefonata di spiegazione al “caro Massimo”. Tuttavia – un po’ diversamente da come l’ha appena raccontata lo stesso D’Alema in una intervista a Tommaso Labate per il supplemento 7 del Corriere della Sera- a impedirne la candidatura fu di fatto l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini muovendosi fra i moderati per spianare la strada appunto a Napolitano. Che da presidente della Repubblica non smentì quella specie di sensibilità diversa nei riguardi dei socialisti manifestata già nel 1976, quando si avviò l’esperienza della cosiddetta solidarietà nazionale e lui non condivise la condizione posta dal Pci per aderirvi: che il governo da appoggiare, senza potervi partecipare, fosse “monocolore” democristiano, per escludervi i socialisti prima di tutti gli altri ex alleati dello scudo crociato.

Fu con Napolitano che nel decimo anniversario della morte di Bettino Craxi ad Hammamet partì dal Quirinale alla vedova Anna la lettera in cui si riconosceva che l’azione anche giudiziaria contro il leader socialista per la pratica generalizzata del finanziamento illegale della politica fu di una durezza “senza uguali”. D’Alema poco più di dieci anni prima si era limitato a incoraggiare telegraficamente un Craxi appena operato in condizioni disperate firmandosi impersonalmente, con la sola qualifica di presidente del Consiglio.