Giuseppe Gargani, Peppino per gli amici, democristiano di origine controllata e mai davvero rassegnato alla fine della Dc, 86 anni da poco compiuti e meravigliosamente portati, dei quali 37 trascorsi da deputato fra la Camera e il Parlamento europeo, già sottosegretario alla Giustizia nella cosiddetta prima Repubblica, presidente di commissioni e commissario dell’Autorità di Garanzia nelle comunicazioni, purtroppo non quelle giudiziarie, di cui da garantista com’è sempre stato avrebbe fatto strage; Peppino, dicevo, ha appena aggiornato e riproposto per Lastaria Edizioni il suo fortunato libro del 1998  “In nome dei Pubblici Ministeri. Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate”. Sbagliate dalle maggioranze di turno in Parlamento non sapendo l’abuso cui si potevano prestare per fare uscire l’amministrazione della Giustizia dai binari voluti dai costituenti. Temo tuttavia che qualcuno abbia giocato davvero sporco, legiferando male proprio perché avvenisse quello che è accaduto, cioè lo sconfinamento delle toghe e i danni inevitabili della loro autoreferenzialità o onnipotenza. Che si sta peraltro ritorcendo contro la stessa magistratura per il crescente discredito o - se preferite - per la decrescente credibilità e per un carrierismo che si è rivelato peggiore di ogni cattiva previsione. Giustamente Gargani ha riproposto già nella presentazione del suo libro - aggiornato con la prefazione di Mattia Feltri e con altri suoi interventi successivi al 1998, compresi alcuni articoli scritti per Il Dubbio - il fastidio avvertito nell’esplosione della cosiddetta Tangentopoli da “uno dei magistrati più intelligenti del pool di Milano”, Gherardo Colombo. Il quale si dolse del “ruolo politico di supplenza” assegnato alla magistratura con leggi malfatte, appunto, delegando “al magistrato la soluzione di questioni che non spettano alla giurisdizione” perché “politiche”. In una prateria così spianata le toghe più politicizzate, a volte persino inconsapevolmente, tanto erano convinte di avere una missione purificatrice da svolgere, hanno potuto produrre una situazione dalla quale temo che non si possa uscire con la speranza ancora nutrita da Gargani di “un’autocritica fatta dai partiti di opposizione e da una magistratura che vuole essere “indipendente” per una pacificazione nazionale, per un chiarimento necessario alla giurisdizione: questo sì capace - ha scritto l’autore - di far prevalere la questione morale su quella penale”. Temo che non verrà mai il momento considerato opportuno da tutte le parti in campo per procedere ad una riforma tanto condivisa quanto efficace. Se la politica non ritroverà il coraggio di riappropriarsi delle proprie competenze, con le buone o con le cattive, con nuove leggi o con l’abrogazione referendaria di quelle sbagliate, come sembra avere capito adesso anche la Lega di Matteo Salvini dopo avere partecipato con quel famoso cappio a Montecitorio all’ondata giustizialista e manettara dei primi anni Novanta, non se ne uscirà mai. E’ purtroppo accaduto proprio alla sinistra, anche a quella democristiana da cui proviene Gargani, di partecipare con sofferenza o di assistere con impotenza, come per una maledizione, alla degenerazione dei rapporti fra la magistratura e la politica. Ricordo il compianto Giovanni Galloni, amico e collega di partito e corrente di Gargani, alla vice presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura mentre a Milano si faceva uso assai disinvolto, per esempio, delle manette sino a provocare suicidi, che venivano cinicamente liquidati come incidenti di percorso o, peggio ancora, come ammissioni finalmente di colpe. Proprio contro quel fenomeno che grida ancora vendetta Gargani si mosse come presidente della Commissione Giustizia della Camera per rimediarvi con norme condivise “anche da parte del Pci”, come ha ricordato. Ma non si riuscì a concludere nulla perché -ricordo ancora fisicamente il malumore in Transatlantico del compianto deputato del Pds-ex Pci Giovanni Correnti- il capogruppo Massimo D’Alema non trovò quello il momento opportuno per intervenire, vista evidentemente la popolarità delle manette. Con sarcasmo di stile manzoniano Gargani ha scritto che “abbiamo dovuto subire l’epidemia del coronavirus per ottenere un richiamo formale del Procuratore generale presso la Cassazione ai magistrati ad applicare la legge, e cioè arrestare solo se necessario”. Il Covid insomma è arrivato con una trentina d’anni di ritardo: un’osservazione tanto paradossale quanto tragica, al pari della speranza che possano essere almeno i cosiddetti vincoli derivanti dall’integrazione europea a quella riforma della giustizia che da soli non siamo riusciti a realizzare: una prospettiva che non a caso ha indotto il giustizialismo politico e mediatico italiano a collocarsi in questi giorni su posizioni di vecchio e svillaneggiato sovranismo.