«Non possiamo guardarci come avversari. Avremo idee diverse, ci confronteremo, ma l’obiettivo è un’impresa corale che chiede la condivisione da parte di tutti. Siamo compagni di strada rispetto a questo obiettivo». Parole, quelle del ministro della Giustizia Marta Cartabia, che tentano di mitigare il futuro dibattito politico. Parole spese durante l’incontro svoltosi tra la Commissione di esperti sul processo penale e i capigruppo della maggioranza. I toni che esortano alla collaborazione sono frutto di una scadenza di vitale importanza per l’Italia: le modifiche sulla Giustizia, il superamento della precedente semi-riforma voluta dall’ex guardasigilli Bonafede, aspetti di imprescindibile e improrogabile necessità a cui l’Europa chiede di attenersi, se l’Italia vuole vedersi riconoscere i fondi del Recovery nella loro interezza. Si tratta di una cifra immensa che non contempla solo i danari destinati al settore giustizia, circa 2,7 miliardi, bensì l’intero capitale, espresso in centinaia di miliardi. Perché l'archiviazione "meritata" può dare corpo all'articolo 27 Tra gli oltre 700 emendamenti alla legge Bonafede sul processo penale avanzati dalle forze parlamentari, ve ne è uno a firma Partito democratico, presentato lo scorso 27 aprile e che merita una trattazione a parte. La cosiddetta “archiviazione meritata”, con la cui locuzione si vuole intendere l’archiviazione del procedimento a favore dell’indagato, consentendo a quest’ultimo di evitare il processo, compensando preventivamente la parte danneggiata tramite la corresponsione di una somma o lo svolgimento di lavori di pubblica utilità: un neo istituto ora al vaglio della Commissione presieduta dal professor Giorgio Lattanzi. È indubbiamente uno strumento interessante, valevole di attente valutazioni e, se strutturato con cura e precisione, potrà consentire un potenziamento di effettività per il sistema penale, nella piena realizzazione delle volontà, ex articolo 27 della Costituzione, di rieducazione dell’interessato tramite un servizio reso alla comunità. Sicuramente uno strumento di tal natura dovrebbe trovare posto, sia teoricamente che proceduralmente, nel pantheon dei riti speciali, affidando l’attivazione dell’istituto al pubblico ministero, in accordo con le parti, al termine delle indagini preliminari, riportando esplicitamente la possibilità di ricorrere all’archiviazione meritata in seno all’avviso ex articolo 415-bis. Un esercizio, mediato, dell’azione penale. Il limite della proposta Pd: istituto definito in modo non tassativo  Senza dubbio sarà necessario prevedere tutta una serie di criteri in ordine alla ricorribilità dell’istituto, come già accade per il patteggiamento o per l’oblazione ex articoli 162 e 162-bis c.p. (termini edittali, reati ostativi alla richiesta di archiviazione meritata, ecc.). In tal modo si elimina la discrezionalità in capo al magistrato inquirente di determinare la possibilità per l’indagato di poter ricorrere allo strumento in questione, e si lascia che sia il legislatore a determinarne i requisiti di accesso, in via tassativa. L’attuale formulazione dell’emendamento, tuttavia, prevede che sia il pubblico ministero, all’atto di esercitare l’azione penale, a valutare discrezionalmente se attivare eventualmente l’istituto. L’impostazione sì assunta non appare condivisibile, in ordine a una elementare ragione: scarso ricorso ai procedimenti speciali nel nostro ordinamento, il cui potere di attivazione, se lasciato interamente nelle mani delle Procure, rischia di divenire un istituto di utilizzo minore, perdendo del tutto le volontà deflattive che si propongono di esercitare. L’emendamento a firma Pd prevede successivamente, al punto c), che in seguito all’accordo intercorso tra Procura e indagato, il giudice delle indagini preliminari sia competente alla decisione sull’accordo. Non potrebbe essere altrimenti, come già attualmente avviene per tutte le questioni sollevate in fase di indagini ove il procuratore eserciti l’azione penale. A tal proposito si rileva che l’emendamento prevede che il giudice sia chiamato a effettuare una triplice valutazione:1. una sulla sostenibilità dell’accusa in giudizio in virtù degli elementi raccolti dal pubblico ministero;2. una di garanzia sulla natura informata e libera del consenso prestato dall’indagato;3. una legata all’effettiva idoneità del programma trattamentale chiamato a compensare l’interesse pubblico offeso dall’illecito, ovvero la vittima del reato, come attualmente avviene per la cosiddetta messa alla prova. I criteri valutativi sopracitati paiono, in termini generali, accoglibili, anche se sarà inevitabilmente necessario prevedere delle ipotesi di accesso all’istituto più stringenti, vale a dire più precise, su cui il gip sarà chiamato a fondare le proprie valutazioni, ad esempio prevedendo esplicitamente dei reati ostativi di accesso allo strumento ivi ipotizzato, ovvero l’esclusione dei recidivi. Ad ogni modo, all’esito del giudizio decisorio è previsto che sempre il procuratore sia il soggetto competente alla vigilanza del rispetto del patto intercorso tra questi e la difesa privata, assicurandosi – tramite la polizia giudiziaria o i servizi sociali – dell’effettivo svolgimento dei lavori di pubblica utilità stabiliti o sulla corresponsione del dovuto. Non vi è chi non veda, nel quadro qui tratteggiato, una certa affinità con la “messa alla prova” – introdotta dalla legge 67/2014 e oggi disciplinata all’articolo 168-bis c.p. – e la domanda sorge pertanto spontanea: perché introdurre un istituto molto simile a taluni già presenti nel nostro ordinamento e che difficilmente hanno attecchito nella prassi? L’introduzione dell’archiviazione meritata dovrebbe porsi come un neo contenitore per tutti quegli strumenti di natura deflattiva e riparatoria, tra cui la sospensione del procedimento per messa alla prova, ampliando la possibilità di ricorso a strumenti di siffatta natura per tutti quei reati di minore entità, ma non circoscrivendo l’ambito di applicazione ai soli reati contravvenzionali o puniti con l’arresto, come accade nel caso dell’oblazione e dell’estinzione per condotte riparatorie. L’istituto quindi, a parere di chi scrive, dovrebbe sì avere un ambito di applicazione analogo a quello dell’attuale messa alla prova, ma allo stesso tempo più ampio, amplificando così la sua forza deflattiva, non prevedendo come cogente la misura del lavoro di pubblica utilità. In conclusione, inserire in questo contenitore tutte le misure deflattive simili succitate (oblazione, messa alla prova, ecc.) si tradurrebbe in un’armonizzazione del Codice di Rito, semplificando il quadro normativo e pratico. Un neo: il gip e il gup dovrebbero vedersi ampliate le proprie competenze, portandole a vero filtro del sistema. Chissà se la professoressa Cartabia è dello stesso avviso.