Il primo esempio di processo mediatico, studiato con una sceneggiatura e una regia degne di un kolossal, è senza dubbio la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora: dalla passerella con i ferri ai polsi per raggiungere il cellulare della polizia penitenziaria, alla feroce campagna stampa frutto di una costante violazione del segreto d'indagine (l'avvocato Raffaele della Valle, difensore di Tortora, ama raccontare che in quei giorni gli atti giudiziari venivano depositati in edicola e non in procura!). Tutto doveva servire a costruire Tortora colpevole. Ad ogni costo. Per salvare la credibilità dell'inchiesta contro la NCO. Per salvare la loro faccia, quella dei due inquirenti. Per compensare la mancanza di prove e riscontri. C'è un libro, piccolo nel formato ma grande nei contenuti, Il circo mediatico-giudiziario , scritto da Daniel Soulez Larivière, che nel distinguere il potere mediatico da quello giudiziario pone l'accento sul giornalismo di investigazione e sul giudice alla conquista dei media. Un testo che avrebbe dovuto fare scuola. Non è andata così. Anzi, a dire il vero sembra aver semmai “suggerito” come coniugare inchieste giudiziarie e mezzi di informazione per ottenere il massimo risultato. Nella prefazione, Giuliano Ferrara scrive “credo di essere la persona giusta” perché alla fine degli anni ottanta, in una trasmissione Rai “Linea rovente”, aveva indossato la toga per celebrare una dozzina di processi televisivi (tra gli “imputati” vi era stato anche Marco Pannella). “Ma io scherzavo!” precisa. E invece anche in questo caso il format tv ha fatto scuola. E tanti giornalisti, di quelli che si prendono troppo sul serio, che non hanno il senso della misura ma solo quello dell'arroganza, seduti dietro la loro scrivania oppure in piedi davanti alla telecamera, hanno ripreso quella toga e l'hanno indossata davvero. A discapito dello Stato di diritto. Falsificata dalle emozioni del gossip, la verità mediatica diventa nei fatti più forte, più suggestiva della verità vera. Ogni anno, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, di fronte alle più alte autorità, il Procuratore Generale di turno della Cassazione denuncia il consolidato malcostume di offendere - in nome del diritto all'informazione - la dignità e il rispetto della vita privata di un cittadino, il diritto costituzionale ad un giusto processo, la presunzione di innocenza. La “verità” mediatica, ammaliante come il canto delle sirene per Ulisse, diventa più risonante di quella processuale. Anche per quel giudice che ha il compito di giudicare secondo la legge e che invece - mancando la condizione della separazione delle carriere - viene già influenzato dai magistrati inquirenti. Le cronache giudiziarie spesso lasciano un marchio sull'imputato, assecondando il giustizialismo e la presunzione di colpevolezza. D'altronde non è vero, come sostenne un noto magistrato, che “non esistono innocenti ma solo colpevoli che non sono stati ancora scoperti?”. Durante la rivoluzione francese, nei giorni del Terrore, la ghigliottina era lo spettacolo più ambito: ai suoi piedi si accalcavano delle vecchie che, tra berci e risate sguaiate, assistevano al mostruoso cadere delle teste. Per accaparrarsi il posto in prima fila arrivavano molto prima dell'esecuzione, e per ingannare l'attesa lavoravano a maglia. Per questo le chiamavano “les tricoteuses”. I nuovi mostri si accomodano ora davanti al televisore, ansiosi di vedere la ghigliottina della calunnia o della ingiusta condanna cadere sulla testa del povero disgraziato di turno. Non di rado sfogano il loro disprezzo scrivendogli contro frasi indegne sui cosiddetti “social”, l'unico strumento che hanno per cercare di attenuare la loro indicibile solitudine. Quanto a tutti gli altri, si limitano a fare spallucce. Almeno fino a quando la giustizia ingiusta non decide di colpirli, all'improvviso. *Francesca Scopelliti, Presidente Fondazione per la giustizia giusta Enzo Tortora