“Processo giusto e breve” è il motto portato avanti dalla ministra Cartabia e che ispira la proposta di riforma del processo penale, da tanto attesa. La necessità di attuare il principio consacrato nell’articolo 111 della Costituzione, quello del “giusto processo”, è oggi sempre più incalzante: esso costituisce un diritto fondamentale della persona, di derivazione internazionale, che trova applicazione in qualsiasi processo, a prescindere dalla natura dello stesso. Il punto di frizione tra “giusto processo” e processo penale, in particolare, è da sempre rappresentato dalla “ragionevole durata”: la regolamentazione sul piano formale delle tempistiche entro cui si articola ogni fase, procedimentale e processuale, non sembra da sola sufficiente a garantire l’attuazione di quel principio.

Certamente la ricerca e l’accertamento di una verità processuale non può essere compressa entro limiti temporali troppo stringenti ma nemmeno può ergersi a giustificazione di un’eccessiva dilazione dei tempi, così ripercuotendosi in negativo su una serie di diritti della persona nei cui confronti si celebra il processo, stante l’idoneità dello stesso a travolgerli e comprimerli.

Uno dei punti critici, su cui si discute da molto, è quello relativo alla conciliazione tra “giusto processo” e durata dello stesso mediante lo snellimento di alcune fasi entro cui si snoda l’accertamento della verità, sempre nel rispetto del diritto di difesa, del pari garantito dalla Costituzione. La giustizia e la brevità sono due facce della stessa medaglia.

In primo luogo, perché un processo per essere giusto deve essere breve, e questa è una garanzia tanto per l’imputato quanto per lo Stato e soprattutto per le vittime che aspettano la sua definizione. In secondo luogo, perché un processo deve essere “breve” ma allo stesso tempo “giusto”, il che significa che un’accelerazione delle tempistiche processuali non potrà mai comportare una menomazione del diritto di difesa dell’imputato. Diritto che è consacrato dalla Costituzione come “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, a ricordarci che un processo “giusto” non deve essere identificato solo in quello che si conclude con una sentenza di condanna.

In quest’ottica garantistica, significativa e utile è, innanzitutto, una diversa concezione dell’udienza preliminare: da anni si è messo in discussione il suo ruolo di udienza “filtro”, tacciata troppo spesso di inutilità nell’economia processuale. Concepita dal legislatore come una fase processuale preordinata alla verifica dell’inidoneità degli elementi raccolti dal Pm nell’espletamento delle indagini preliminari, e quindi a una prognosi circa l’inutilità del dibattimento, soffre i limitati poteri attribuiti al Gup che, di fatto, non è in grado di filtrare le sole imputazioni meritevoli di un rinvio al giudizio. In questo senso, pertanto, è certamente opportuno attribuire poteri più pregnanti al Gup, così da essere in grado di valutare efficacemente la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, quindi, di garantire una “deflazione” dei procedimenti inutili, perché non condurrebbero a una condanna dell’imputato, già nella fase preliminare.

Più in generale, è necessario insistere sull’intera fase procedimentale delle indagini preliminari, che allo stato degli atti possono arrivare a durare fino a due anni. Anche in questo caso, massima rilevanza andrebbe attribuita alla previsione di tempi certi, nel segno di rendere più difficilmente eludibili i termini fissati per il compimento di determinate attività e per l’esercizio di determinate facoltà.

Nell’ottica di un processo “giusto e breve” è fondamentale rivalutare quei procedimenti‘ speciali a definizione anticipata. Da una parte si potrebbe far leva sul criterio della entità del fatto commesso, così ampliando il catalogo dei reati per i quali l’accesso ai riti alternativi possa dirsi privilegiato, dall’altra sulle conseguenze derivanti da una simile scelta, prevedendo riduzioni di pena più significative ed estendendo gli altri benefici a tutti i procedimenti speciali. Trai i riti alternativi previsti dal legislatore, una maggiore attenzione dovrebbe essere riposta nella sospensione del procedimento con messa alla prova, del pari ampliandone le condizioni di accesso. Gli effetti di questo procedimento speciale, infatti, sono molteplici: la deflazione del carico pendente, che può avvenire già nel corso delle indagini preliminari quando l’apposita richiesta è presentata nel corso di questa fase procedimentale; il coinvolgimento attivo dell’imputato che è tenuto a prestare condotte volte a riparare le conseguenze dannose derivanti dal reato nonché a svolgere attività di rilievo sociale e di pubblica utilità; l’estinzione del reato allorquando la prova, cui è sottoposto l’imputato, abbia avuto esito positivo.

La previsione di tre gradi di un giudizio se da un lato garantisce la piena attuazione del diritto di difesa, dall’altra contribuisce ad allungare i tempi della giustizia. Perciò è condivisibile l’idea di apporre un limite alla facoltà di impugnare un provvedimento al ricorrere di determinate condizioni: ad esempio, l’appello del Pm avverso una sentenza di assoluzione di primo grado potrebbe essere ristretto ai soli casi eccezionali, dato che il dibattimento è la sede naturale per il contraddittorio sulla prova.

Una riforma della giustizia penale, per dirsi completa, dovrebbe, però, riguardare anche la fase dell’esecuzione della pena inflitta con sentenza di condanna divenuta irrevocabile.

La necessità di incidere in maniera definitiva sul problema, ancora attuale, del sovraffollamento carcerario deve spingere a trovare soluzioni alternative, del pari idonee ad assicurare la funzione rieducativa della pena, imposta costituzionalmente. Certezza della pena non significa per ciò solo certezza del carcere, e di questa linea di pensiero sembra farsi portatrice la stessa Corte costituzionale, la quale ha affrontato la questione della non compatibilità del cosiddetto ergastolo ostativo con il sistema costituzionale.

Le soluzioni per un processo “giusto e breve” sono molteplici e non è detto che gli interventi debbano riguardare soltanto la procedura.

L’opera di snellimento potrebbe ben riguardare anche i profili sostanziali del diritto penale: la depenalizzazione è un potente strumento, efficace non solo per le conseguenze deflattive che genera sul carico di processi pendenti ma anche per il mantenimento di un diritto penale che sia coerente e rispettoso dei principi generali posti al suo fondamento. Evitare il panpenalismo, in cui si rifugiano le paure di una società moderna; espungere dall’ordinamento quelle fattispecie di reato che in concreto non offendono beni giuridici protetti dall’ordinamento; insistere nella prevenzione dei reati anche, e soprattutto, incentivando la diffusione della cultura della legalità.

Questa riforma del processo penale dovrebbe esser figlia di una visione d’insieme: è solo attraverso la sinergia dei vari istituti, sia di diritto penale sostanziale, sia processuale che saremmo in grado di dar vita ad un processo “giusto e breve”, nella piena attuazione dei principi fondamentali della nostra Costituzione e di quelli internazionali.