«Ho fatto il repressore per 33 anni, e mi sono dimesso anche perché finalmente ho compreso che questo sistema carcerario è contrario all'umanità, oltre ad essere inutile». L'ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo non ha alcun dubbio sul fatto che il carcere come strumento di repressione e rieducazione sia superato, e ribadisce il suo pensiero in un dialogo a due voci - di cui è pubblicata un'anticipazione sulle pagine del Corriere della Sera - con Vittorio Occorsio, nipote del magistrato omonimo vittima dei terroristi di Ordine Nuovo nel 1976. Il dialogo integrale sarà trasmesso nell'ambito del Festival della Giustizia Penale, in programma dal 21 al 23 maggio  e dedicato quest'anno al tema delle vittime di reato. «Mi sono convinto che il carcere, così com'è, non aiuta chi lo subisce a reintegrarsi positivamente nella società e non ci aiuta ad essere più tutelati. La mia opinione è che chi è pericoloso sta da un'altra parte, con tutti i diritti costituzionali che non confliggono con la sicurezza, e ci sta fin tanto che è pericoloso; per gli altri, il carcere non serve. E la Costituzione — che, agli articoli 3 e 27, assicura pari dignità a tutte le persone — a imporre che la pena non possa consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Inoltre, la funzione rieducativa della pena significa che l'aver commesso un delitto non necessariamente richiede, per rieducarsi, il carcere», spiega l'ex magistrato Colombo. Da parte sua, Occorsio mette al centro «il punto di vista delle vittime», convinto «che la privazione della libertà per i criminali sia un sacrificio imposto a garanzia dei cittadini. Anche quando la condanna arriva a molti anni dal reato». Secondo Colombo invece è l'attuale sistema «a non interessarsi delle vittime. Nella giustizia riparativa, invece, la vittima è un interprete principale, attraverso la ricucitura della relazione che il reato ha troncato. Il male consiste in quello: nella negazione della relazione sociale, nel rifiuto dell'altro e conseguentemente nel calpestarlo». «Perché chiedere al familiari delle vittime di doversi far parte attiva, oltreché della memoria — che già richiede alto senso di responsabilità per tornare sul dolore patito — anche di questo processo di riconciliazione con i carnefici?», chiede Occorsio, precisando che in lui «non c'è nessun desiderio di vendetta. Mio padre ha anche scritto un libro, in forma di lettera a me, "Non dimenticare, non odiare". Il mio coinvolgimento non deriva da essere nipote di mio nonno. Direi le stesse cose comunque». «Occorre separare le conseguenze della trasgressione dalla vendetta. È ben più faticoso compiere un percorso di mediazione, di giustizia riparativa, che essere costretto a starsene 20 ore al giorno sulla brandina della cella», replica Colombo.