“Io credo che sia essenziale testimoniare”, così l’ex magistrato Gherardo Colombo commenta il progetto Sui pedali della libertà del Dubbio, che porterà Roberto Sensi a incontrare e raccontare il carcere in tutte le sue sfaccettature, dell’estremo Nord all’estremo Sud del Paese, sui pedali della sua bicicletta. Chi incontra il carcere per la prima volta, si trova spesso a riformulare radicalmente la sua idea a riguardo, allora è per questo che diventa fondamentale raccontarlo. “Noi facciamo esperienza direttamente o attraverso quello che ci viene riportato da altri – spiega Colombo, che il carcere lo ha lungamente vissuto in prima persona da magistrato e oggi riporta la sua esperienza di questa istituzione - La testimonianza è proprio questo riportare a chi non ha visto direttamente”. Gherardo Colombo cosa rappresentava per lei il carcere all’inizio della sua professione? E cosa ha capito poi? Il carcere per me era uno strumento. Credevo, come si impara all’università, che fosse uno strumento di prevenzione speciale e di prevenzione generale, cioè che servisse a evitare che una persona commettesse un reato per la paura della minaccia della pena. Per quanto non lo vedessi comunque bene, pensavo che fosse uno strumento necessario per educare le persone a rispettare le regole. Ma in 33 anni di magistratura, dal 1974 al 2007, progressivamente ho cambiato idea su questo punto. Sempre più ho interiorizzato la differenza tra l’articolo 27, che richiede che le pene non siano in contrasto con il senso di umanità, oltre a dover tendere alla rieducazione del condannato, e la situazione effettiva del carcere. E ormai sono convintissimo che la pena non serva a dissuadere dal commettere reati. Peraltro l’inflizione di un castigo, se qualcosa fa, induce all’obbedienza; e una democrazia non ha bisogno di obbedienza, ma ha bisogno di capacità di gestire la propria libertà. Mi sono dimesso con 14 anni di anticipo sulla scadenza naturale di allora, quando i magistrati andavano in pensione a 75 anni. Poi ho intensificato un’attività che facevo già da un po’ di tempo: girare per le scuole a parlare ai ragazzi di regole e di giustizia. Perché io credo che per osservare le regole sia necessario condividerle. Da magistrato ha chiesto l’ergastolo una volta sola. Anche questa è stata una scelta? Sì, ho chiesto l’ergastolo una volta sola, per un omicidio commesso da due persone. Per fortuna però il tribunale non l’ha inflitto, credo si stabilì una pena di 28 anni di reclusione. Sotto il profilo tecnico gli elementi per chiedere l’ergastolo a mio avviso c’erano. Ma oggi, se facessi ancora quel mestiere, direi che un ergastolo non lo chiederei più. Probabilmente solleverei una questione di legittimità costituzionale. Qual è la funzione del carcere oggi? Serve a educare o a punire? Ci sono delle eccezioni: qui in Lombardia abbiamo Bollate, che è un carcere particolare rispetto a quasi tutte le altre carceri che ci sono in Italia. Però generalmente il carcere è un luogo in cui le persone restano a scontare la pena, con degli interventi talmente minimali in senso rieducativo da essere molto spesso paragonabili al nulla. Cos’è che manca soprattutto? Manca un complesso di cose: più o meno dappertutto manca lo spazio vitale; manca il diritto all’igiene; è molto compromesso il diritto alla cura della salute; il diritto all’istruzione; il diritto all’informazione; il diritto, perché anche quello è un diritto, all’affettività. Dovremmo riflettere in modo approfondito sul senso di quell’espressione che si trova nell’articolo 27, ovvero che non si può essere contrari al “senso di umanità”. Che cos’è questo “senso di umanità”? Cosa vuol dire un carcere “umano”? Un carcere umano a mio parere è un carcere in cui tutti i diritti della persona, che non confliggono con la sicurezza della collettività devono essere garantiti. Ma proprio tutti. E possono essere ridotti e ridimensionati soltanto quei diritti il cui esercizio impedisce la sicurezza della collettività, che sono però molto pochi. Se così fosse nel nostro Paese il carcere sarebbe chiamato dall’opinione pubblica un albergo a cinque stelle. Dunque si dovrebbe smettere di pensare al carcere come una punizione che restituisce il male che si è fatto? Seconde me non dovrebbe essere restituito il male che si è fatto. Anche se esiste una filosofia retribuzionista, secondo cui il male si elide attraverso l’inflizione del male, a me sembra che matematicamente uno più uno faccia due, non faccia zero. Quindi se al male commesso aggiungiamo un altro male inferto, il male lo raddoppiamo invece di annullarlo. Il male costituisce l’espressione di un desiderio di vendetta che viene soddisfatto non direttamente dalla vittima, ma dall’istituzione nel suo complesso. Io credo che il desiderio di vendetta sia un desiderio negativo, che non dovrebbe essere soddisfatto, ma dovrebbe invece essere elaborato, perché si possa utilizzare, nei confronti di chi ha commesso un reato, un percorso che riporti la persona che si è allontanata dalla società, all’interno della società. Lo Stato dovrebbe porsi al di sopra, non inseguire la vendetta come farebbe un criminale. Quasi tutto quello che fa un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, se fosse commesso da lui privatamente o da un altro cittadino, costituirebbe reato. Dispongo una misura cautelare in carcere, si tratterebbe di sequestro di persona; intimo a un teste di presentarsi, sotto minaccia di essere accompagnato dalla forza pubblica, è violenza privata; una perquisizione è violazione di domicilio ; un sequestro è rapina aggravata dal numero delle persone e dall’uso delle armi. Secondo la Costituzione, non è una violenza rilevante, sotto il profilo giuridico, soltanto quella minima che serve a impedire la commissione di reati. Tant’è che l’articolo 13, al penultimo capoverso, dice, usando un’espressione fortissima che compare una volta sola in tutta la Costituzione, “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. La violenza nei confronti di una persona che sta in carcere è punita dalla Costituzione. La nostra Costituzione inibisce l’uso di violenza da parte delle istituzioni, se non nel momento in cui questa sia rigorosissimamente necessaria per evitare che altri diritti di pari dignità siano posti in dubbio. E comunque vengono stabiliti tre limiti fondamentali: senso di umanità, rieducazione e assoluta mancanza di violenza. Con l’emergenza coronavirus i carcerati hanno vissuto come una violenza l’interruzione dei colloqui con i parenti e hanno risposto con le sommosse. Premesso che la violenza non si deve usare, io credo che vada considerato che generalmente i detenuti hanno la possibilità di vedere i parenti solo sei volte al mese, per un tempo non superiore a un’ora in totale, per tutti i parenti. Con la pandemia il tutto è stata ridotto a un’unica telefonata di 10 minuti a settimana. Il tutto in una situazione in cui c’è un virus che si sta espandendo. Saltano i colloqui visivi, c’è soltanto una telefonata di 10 minuti alla settimana. Così sale la preoccupazione, perché sei in carcere e non sai nulla di quello che succede ai tuoi cari, pur ricevendo il segnale televisivo in cui i notiziari e il resto hanno quasi esclusivamente come oggetto questa pandemia. I rischi delle persone che stanno fuori, le immagini dell’esercito che porta via le bare, questo crea un’ansia e un’angoscia notevoli. Il coronavirus ha almeno contribuito a sensibilizzare sulle condizioni sanitarie dei carcerati? Io penso che il tema delle condizioni di vita già fosse all’attenzione delle istituzioni e, per chi avesse voluto, anche della pubblica opinione. Il tema è da sempre sotto gli occhi delle istituzioni, ma non si è fatto molto. Una vera e propria riforma non c’è stata. Cosa si potrebbe fare oggi? Secondo me per mettere una persona in carcere devi aver provato cosa è il carcere. Ma dovresti averlo provato per davvero, non averlo visto da turista, da operatore che arriva interroga e se ne va. Una settimanina dentro sarebbe necessario starci per capire che cos’è il carcere. È necessario capire che cos’è veramente il carcere. Oggi la stragrande maggioranza delle persone che sono in carcere non è pericolosa. Abbiamo una popolazione credo di circa 56 o 57mila detenuti, dopo che sono scesi un po’ con l’emergenza covid, e di questi credo che ci saranno al massimo 20mila persone pericolose, volendo esagerare. Capirete che passare da 57mila a 20mila e occuparsi degli altri attraverso misure alternativa come l’affidamento in prova ai servizi sociali, vorrebbe dire anche rendere la vita di chi è detenuto più coerente con il principio costituzionale. Soluzioni alternative al carcere esistono già. Credo che siano più le persone che oggi scontano la pena fuori dal carcere, di quelle che scontano la pena dentro il carcere. La recidiva di chi sconta la pena fuori dal carcere è notevolmente inferiore di chi la pena la sconta dentro. Quasi il 70% delle persone che escono dal carcere ritornano in carcere; per chi è stato sottoposto a un affidamento in prova ai servizi sociali si parla di una recidiva al 19%. La differenza è notevole. Si parla anche di giustizia riparativa. Generalmente chi agisce il male non sa che ciò che agisce sia male. Per una serie di motivi, soprattutto culturali, di educazione e così via. Per evitare che una persona faccia male è necessario in primo luogo che sappia che quel comportamento provoca dolore. La strada forse più utile per arrivare a questa percezione è proprio quella del percorso di giustizia riparativa. Con la mediazione di una persona che se ne intende, la vittima e il responsabile sono accompagnati lungo un percorso che si conclude con un incontro, che serva al responsabile a rendersi conto del male che ha fatto, senza per questo essere distrutto dai sensi di colpa, e alla vittima di ripararsi del male che ha subito e di riacquistare il senso di dignità che aveva smarrito proprio per il male che era stato inferto. Qual è la sua testimonianza del carcere? Ci sono delle associazioni che portano gli studenti in carcere facendogli fare lo stesso percorso che fanno i detenuti, l’ho fatto anche io una volta e forse quello è il ricordo più vivo del carcere. Poi ci sono dei ricordi terribili, perché qualcuno si è suicidato in carcere e a me è successo di andare a vedere. E gli interrogatori, per 28 anni ho fatto il giudice o il pubblico ministero investigativi, era usuale per me frequentare San Vittore per interrogare delle persone che erano detenute. In quei momenti c’è l’incontro della faccia che sta fuori e della faccia che sta dentro, che sono estremamente diverse, ma tanto diverse da essere sostanzialmente incomparabili. Non ho visto solo le carceri italiane, lavorando a uno dei tavoli degli Stati Generali mi è capitato di visitare le carceri norvegesi e poi quelle boliviane, esperienze radicalmente diverse: in Norvegia sembra davvero un albergo a cinque stelle, mentre in Bolivia è un paese circondato da mura. Di esperienze ne ho avute molte e sono tutte esperienze che confermano la mia convinzione ormai sicura che, così com’è qui da noi, il carcere dovrebbe essere abolito. di Lorem Ipsum, collettivo giornalisti indipendenti