«Mario Draghi è un premier che ha strategia. Sa dunque che le leggi possono non bastare. O meglio: che le nuove leggi non bastano se non sono armonizzate con le precedenti. E ancora, Draghi sa che in alcuni casi l’interpretazione conta più della lettera di una norma. Se vuole dunque davvero spalancare alle imprese l’autostrada della crescita deve chiarire alcuni aspetti cruciali della stabilità e spendibilità dei procedimenti amministrativi e di concessione di benefici economici. E per farlo, servirà forse un impegno comune delle magistrature supreme per garantire un rigoroso rispetto dei confini della giurisdizione amministrativa». Maria Alessandra Sandulli, ordinario di Diritto amministrativo all’università Roma Tre, è uno dei pochi scienziati del diritto italiani che intrattengono con le massime istituzioni un rapporto di amichevole vigilanza. Risponde al Dubbio su alcuni aspetti decisivi delle norme che si intende modificare a breve con il nuovo decreto Semplificazioni. «Non sarà facile offrire al sistema economico e a ogni singolo operatore quella che chiamiamo stabilità del titolo autorizzativo o del beneficio. Eppure è indispensabile farlo».

Cosa intende dire, che dietro quel terribile acronimo, Pnrr, c’è un gigante con i piedi di argilla?

Non drammatizziamo fino a questo punto. Il Piano dichiara tra i suoi obiettivi: una ripresa rapida, solida e inclusiva e il miglioramento della crescita potenziale. Inutile ricordare quali gap sconti il Paese rispetto ai ritmi di crescita dell’Ue. D’altra parte abbiamo avuto il finanziamento più consistente, che è però condizionato ad alcune precise missioni. E per poterle effettivamente realizzare è però indispensabile anche incentivare le attività economiche private, che servono a produrre a loro volta reddito. Non basta la leva fiscale: sarà determinante la semplificazione amministrativa.

Sul punto paiono tutti d’accordo, governo in primis.

Certo, ma ci sono snodi sottovalutati, su cui è urgente intervenire. Tra i quali i meccanismi di semplificazione autorizzativa, in particolare il silenzio- assenso e la “Scia”, cioè l’avvio di una attività sulla base di una mera segnalazione.

Atto tipico e necessario nella vita di ogni impresa.

Nel corso dell’evoluzione normativa, i privati si sono trovati sempre più spesso a dover dichiarare e autocertificare non solo dati di realtà oggettivamente certi ma anche la sussistenza dei presupposti e requisiti di legge per l’adozione di un provvedimento o per l’avvio di una attività.

È questa la semplificazione, no?

Dovrebbe esserlo. Ma l’imprenditore è chiamato in questo modo ad assumere in prima persona la responsabilità di individuare, nel marasma normativo, le regole nazionali, sovranazionali, locali, di vario livello, inerenti il suo caso. E deve interpretarle nel modo che poi singolo giudice e Pa riterranno corretto.

Ma tanto una volta ottenuto il titolo è a posto. O no?

Lei pensa? Aspetti e ascolti. Intanto l’onere evocato è tanto più assurdo se si pensa che il Dl 76/ 2020 ha ridotto la responsabilità erariale dei funzionari pubblici per l’adozione di atti illegittimi ai soli casi di dolo.

Mentre per i privati?

Si resta esposti a interpretazioni giurisprudenziali non di rado discordanti. L’articolo 21- nonies della legge 241/ 90 sul procedimento amministrativo dice espressamente che con la segnalazione o la domanda il privato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge. In caso di dichiarazione mendace si configura il reato previsto dall’articolo 483 del codice penale, cioè il falso ideologico, salvo che la condotta integri un più grave reato. Il punto critico è il margine concesso all’amministrazione per accertare la sussistenza di quel falso e autoannullare il provvedimento autorizzativo: è un margine di fatto indeterminato. In altre parole il titolo abilitativo non si forma mai compiutamente. Viene in tal modo sterilizzato ogni limite temporale imposto dal legislatore all’amministrazione, e viene così meno, per il privato, la stabilità del titolo o del beneficio.

Com’è possibile?

Col decreto 76 del 2020 il pubblico funzionario è stato liberato dalla paura della firma, si è detto. Il punto è che l’autorizzazione o il beneficio derivanti da quella firma non sono stabili: nonostante gli sforzi compiuti dal legislatore a partire dal 2004, le amministrazioni e gli stessi giudici amministrativi trovano spesso il modo per sterilizzare i limiti imposti al pubblico potere per annullare i propri atti. In questo, sono agevolati da alcune incertezze e discrasie dei testi normativi. Come noto, il legislatore ha stabilito, nel 2015, un termine massimo, 18 mesi, entro cui le amministrazioni possono annullare d’ufficio i propri provvedimenti di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici. Il termine decorre dall’adozione del provvedimento, inclusi i casi in cui esso si sia formato per effetto del cosiddetto silenzio assenso.

Diciotto mesi per annullare sono tanti, ma almeno il privato lo sa e ci fa conto.

In teoria. Tanto più che lo stesso limite temporale è stato fissato per il controllo sulla sussistenza dei presupposti per la utilizzabilità della “Scia”, laddove la Pa non abbia mosso rilievi dopo i 30 o i 60 giorni concessi per il controllo immediato sulla legittimità della stessa segnalazione. Si ipotizza poi una riduzione del termine da 18 a 3 mesi con il prossimo decreto Semplificazioni, sulla scorta di quanto avvenuto, col Dl 76, per i soli atti legati al covid.

E il governo tiene molto a questa modifica.

Va ricordato come il Consiglio di Stato, nella commissione speciale istituita per i decreti legislativi di attuazione della riforma Madia, avesse chiarito che il limite dei 18 mesi per il controllo postumo sulla “Scia” e per l’autoannullamento segnava un nuovo paradigma dell’autotutela, destinato a dare fiducia agli operatori e coerente con altri termini decadenziali.

Qual è allora il problema?

Il Consiglio di Stato ha spiegato che sarebbe stato opportuno chiarire che quel limite va applicato anche a provvedimenti che non sono formalmente definiti annullamento ma assumono la definizione di revoca, risoluzione o decadenza dai benefici. A tali espressioni infatti si ricorre impropriamente anche per indicare la reazione all’illegittimo conseguimento del titolo. Ma allora si tratta di annullamenti travestiti.

Il Consiglio di Stato ha dunque indicato la strada?

Sì. Ma per assicurare il necessario contemperamento fra la stabilità di titoli e benefici ottenuti dai privati e l’esigenza di controllo su autodichiarazioni fraudolente, lo stesso articolo 21- nonies della legge 241/ 90 ha stabilito che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti, o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato”, possono essere annullate dall’amministrazione anche oltre la scadenza dei 18 mesi, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del dpr 445 del 2000.

E perché tale “clausola” complica il quadro?

Perché le Pa e la giurisprudenza hanno progressivamente ridotto l’ambito di operatività del limite dei 18 mesi. Hanno cercato, per un verso, di spostare in avanti il dies a quo per la decorrenza del termine, e in parte ci sono riuscite. Inoltre hanno affermato che il vincolo della sentenza di condanna passata in giudicato non opera anche per le false rappresentazioni dei fatti. E soprattutto hanno fatto rientrare nel concetto di falsa rappresentazione dei fatti anche l’erronea ricostruzione e interpretazione del quadro normativo di riferimento.

Quindi il privato non rischia di perdere l’autorizzazione o un beneficio, anche economico, solo se dichiara deliberatamente il falso su un fatto oggettivo ma anche se si sbaglia a interpretare una legge?

Esatto. Ecco perché sono così pochi quelli che chiedono l’ecobonus, tanto per fare un esempio. Pa e giurisprudenza hanno poi utilizzato il richiamo alle sanzioni di cui al dpr 445 del 2000 per affermare che in ogni caso la dichiarazione non veritiera, cui viene sempre impropriamente equiparato il mero errore d’interpretazione del quadro normativo, determina la decadenza del beneficio. Una chiave di lettura aggravata dal fatto che il Dl 34 del 2020 ha inasprito le sanzioni per le false dichiarazioni, prevedendo anche la revoca dei benefici già ottenuti e addirittura l’interdizione da ulteriori benefici per i due anni successivi all’accertamento. Se questo inasprimento viene utilizzato anche per i meri errori su dati opinabili, e sganciato dall’elemento oggettivo del falso, i limiti all’autotutela diventano inutili.

Si può perdere tutto per un errore d’interpretazione.

Ed ecco perché a mio giudizio una figura dotata di straordinario senso strategico come il premier Draghi dovrebbe, di fronte a questo, blindare la scelta che si vorrà assumere in un contesto normativo chiaro e inequivoco, in modo che le amministrazioni di vigilanza, e gli stessi giudici, non abbiamo spazi ricostruttivi diversi da quelli chiaramente tracciati. Nessuna misura di semplificazione potrà altrimenti convincere il privato, tranquillizzare operatori e investitori. In tanti hanno già subito o visto altri subire conseguenze sproporzionate e a volte drammatiche.

A suo giudizio, Draghi ha presente questa distorsione?

Confido che ne comprenda la gravità. Si vuole ridurre da 18 a 3 mesi il termine per il controllo postumo. Forse è un limite così ristretto da impedire effettivamente l’attività di verifica delle amministrazioni. Il termine può essere anche meno ravvicinato, basta che una volta trascorso, il privato sappia di poter vedere annullato tutto solo se ha consapevolmente dichiarato il falso. Dal legislatore serve probabilmente un lavoro di interpretazione autentica sulle norme della riforma Madia, che non lasci spazi di incertezza in cui può insinuarsi l’interpretazione imprevedibile del giudice amministrativo. Ma ripeto: più importante di ogni altra cosa sarebbe un dialogo proficuo tra le magistrature supreme in modo da meglio assicurare il rispetto dei confini fra i diversi poteri pubblici. Ivi compreso quello fra giudice e legislatore.

La rivoluzione è assai meno banale di quel che si pensa.

Ma è anche necessaria, se non vogliamo sprecare l’occasione irripetibile che abbiamo.