Abbiamo una paura, una grande paura. Il dibattito pubblico sul disegno di legge per l’introduzione di misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, noto come ddl Zan, si sta allontanando clamorosamente dal reale contenuto della proposta normativa. L’abbiamo purtroppo visto anche sulle colonne di questo giornale in alcuni brani dell’articolo “Ddl Zan, quando lo scontro ideologico uccide il dibattito” a firma di Paolo Delgado, pubblicato sul numero del Dubbio del 6 maggio. Lungi dal riportare il dibattito ad un confronto pragmatico ed intellettualmente onesto fra opinioni divergenti assistiamo alla diffusione di informazioni non vere. È sconfortante leggere che, in base al ddl, “bast[erebbe] registrarsi all’anagrafe come donna per essere tale” e che “una volta stabilito che un uomo si dichiara donna è donna a tutti gli effetti diventerebbe difficile, se non impossibile, negare il diritto all’utero in affitto”. Nulla di tutto ciò è vero. È sufficiente una lettura del testo del ddl per rendersene conto: non un solo comma è capace di introdurre nell’ordinamento quanto appena riferito. D’altra parte è noto che l’ordinamento anagrafico e dello stato civile, la disciplina della rettificazione di sesso, di cui alla legge n. 164/82, e le sentenze della Corte costituzionale nn. 221/2015 e 180/2017, per stare ai formanti principali, prevedono procedure giurisdizionali estremamente complesse, approfondite e spesso logoranti per il riconoscimento della identità di genere, benché quest’ultima sia «elemento costitutivo del diritto all'identità personale, rientrante a pieno titolo nell'ambito dei diritti fondamentali della persona» e, come tale, sia meritevole della massima garanzia di piena attuazione. “Va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione”: così si legge nell’ultima sentenza citata. Tutt’altro che una semplice dichiarazione all’anagrafe. Quanto, poi, alla gestazione per altri, essa resta vietata nel nostro ordinamento dall’art. 12 della l. n. 40/2004, ed anche in questo caso il ddl Zan non modifica alcunché. Leggere per credere. Ci pare, allora, che questa variante del dibattito si risolva in una distrazione assai nociva, che solleva paure su previsioni inesistenti finendo per oscurare la reale necessità di tutela di persone in carne ed ossa. Necessità, ormai, divenuta urgenza, perché i reati d’odio sempre più frequenti presentano una più grave lesione dei beni tutelati dall’ordinamento e della dignità umana. Va poi detto, in un confronto sereno, che il tentativo di leggere ideologicamente e assiomaticamente le definizioni normative proposte all’art. 1 del ddl trascura la prospettiva del diritto penale e dello specifico disegno di legge. Tali definizioni, da un lato, sono funzionali alla tipizzazione della fattispecie, proprio a tutela delle libertà, e dall’altro sono necessarie a individuare il bene protetto ed il comportamento vietato dall’ordinamento. Basti rammentare che quando la legge Mancino parla di razza, essa non sostiene o valorizza l’esistenza della razza, contro ogni evidenza scientifica ed antropologica. Al contrario, intende vietare e sanzionare particolarmente l’odio e la violenza che su quel concetto fanno leva. Veniamo quindi alla vexata quaestio della libertà di espressione. Il ddl Zan non introduce una fattispecie nuova ma estende ad ulteriori fattori di discriminazione le fattispecie già esistenti nel codice penale all’art. 604 bis, ovvero l’istigazione ed associazione a delinquere per motivi di discriminazione, escludendo però il reato di propaganda, ed all’art. 604 ter, ovvero l’aggravante della finalità di discriminazione. La libertà di espressione è presidio fra i più alti dell’ordinamento democratico. Tuttavia l’istigazione al reato d’odio non viola tale libertà, come riconosciuto dalla Corte di cassazione, dalla Corte europea dei diritti umani (sent. Lielliendahl v. Iceland, 11 giugno 2020) e, sia pur in contesto non penalistico, dalla Corte di Giustizia (causa C-507/18). La libertà di espressione, come le altre, non è illimitata e non può violare la dignità umana. Il nostro ordinamento conosce una serie di reati connessi all’espressione non lecita del pensiero.  L’istigazione, poi, richiede un livello di materialità, un invito a tenere una condotta illecita, che la rendono perseguibile giacché il soggetto non si limita all’espressione di opinioni o convincimenti. A scanso di ogni equivoco, il ddl Zan, nel testo approvato dalla Camera dei Deputati, all’art.4 prevede che “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”, in coerenza con l’articolo 7 della Decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale. Tale inserimento, che alla luce dell’art. 21 della Costituzione può apparire perfino ultroneo e criticabile, chiarisce ampiamente che lo spazio di libera e lecita espressione delle idee non è compresso. L’istituzione in ambito nazionale della giornata contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, traspone in Italia una ricorrenza già presente nell’Unione Europea e costituisce un importante momento per affrontare a livello educativo e culturale il problema della violenza motivata dall’odio, come già si affronta o si cerca di affrontare il tema della violenza xenofoba. Lo strumento penale, infatti, non può che essere l’ultima risorsa ed è certamente necessario partire dall’educazione. Ci sono opinioni divergenti ma il nostro auspicio è che il dibattito possa tornare ad un confronto sui temi reali in discussione, senza essere inquinato da fake news, fantasmi, tatticismi politici o posizioni di comodo. Una legge di tutela contro i crimini d’odio e di discriminazione, volta a introdurre anche misure preventive, costituirebbe un significativo passo avanti per la nostra civiltà giuridica e per la capacità del nostro Paese di includere e tutelare tutte le persone, offrendo parità di trattamento ed il migliore contesto di sviluppo anche a chi guarda all’Italia per decidere se venirci a vivere e lavorare. Avv. Mario Di Carlo, Presidente EDGE Avv. Vincenzo Miri, Presidente Avvocatura per i diritti LGBTI Rete Lenford