Si era impiccato in cella nel gennaio 2020 Giuseppe Gregoraci, detto "Pino": aveva solo 51 anni ed era detenuto nel carcere lombardo di Voghera. Era stato arrestato a luglio del 2019 nell'operazione “Canadian 'ndrangheta connection”, scattata su impulso della Dda di Reggio Calabria per colpire la ramificazione della 'ndrangheta calabrese in Canada. L'uomo era accusato di fare parte di una ‘ndrina di Siderno e ritenuto anche responsabile di esercizio abusivo del credito, con l'aggravante di aver agevolato la 'ndrangheta. Pino era un marito, un padre, un pasticcere ma fu etichettato dai giornali come un boss. Se fosse ancora vivo, se avesse potuto beneficiare dei domiciliari forse oggi sarebbe stato scagionato. Proprio due giorni fa, infatti, il Tribunale di Locri ha assolto dalle accuse di associazione mafiosa «per non aver commesso il fatto» i sei co-imputati del processo che avrebbe dovuto giudicare anche Pino. «Non esiste una ‘ndrina, non esiste un associazione mafiosa - si è sfogata la moglie Rosamaria su Facebook -, quindi mi chiedo se questi eclatanti arresti, con tanto di titoloni come "boss mafiosi", "la nuova ndrina di Siderno" ecc. ecc. era proprio il caso di farli? Questo arresto è stato fatto per uccidere un uomo?».A spiegare il calvario di Gregoraci è il suo difensore Giuseppe Calderazzo. Gregoraci finisce in manette nonostante i gravi problemi fisici. L’uomo ha infatti perso una gamba a causa di un grave incidente stradale, all’età di 18 anni, al seguito del quale ha dovuto indossare, fino alla fine, una protesi. «Gregoraci è entrato in carcere con una patologia depressiva, derivante dalla sua condizione - spiega Calderazzo -. Immediatamente, il carcere di Reggio Calabria è risultato inadeguato, come certificato nero su bianco dai medici, che hanno ammesso di non essere in grado di prendersene cura». La cartella sanitaria, dunque, è chiara sin dall’inizio. Gregoraci viene così trasferito nel carcere di Voghera, dove non solo non ci sono le condizioni per assistere adeguatamente l’uomo, ma, mancando le attrezzature adeguate per far fronte ad una situazione del genere, cade n bagno, durante la doccia. «Questo perché non poteva utilizzare la protesi - prosegue Calderazzo -, perché senza fisioterapia ordinaria e manutenzione della protesi il risultato è il restringimento del moncone. E ciò avrebbe reso necessario un intervento fisioterapico più incisivo». Dopo le cadute, che gli provocano un trauma cranico importante, Calderazzo chiede la concessione dei domiciliari, portando come documenti le relazioni di due consulenti, una sulla protesi e una sulla sua condizione psicologica. «I due consulenti, che lo hanno visitato in carcere, hanno certificato l’assoluta incompatibilità di Gregoraci con il carcere - spiega ancora il legale -. Il moncone era ritirato e la protesi ormai inservibile. Solo quattro ospedali in Italia potevano eseguire quelle terapie, figuriamoci se ciò poteva avvenire in carcere. Il rischio era che potesse perdere l’utilizzo anche della restante parte della gamba». L’istanza viene depositata il 18 dicembre del 2019. Il gip chiede subito a Voghera una relazione sanitaria, ma non succede nulla. Il procedimento passa però lo stesso giorno ad un altro giudice, che riceve la relazione, datata il 24 dicembre, soltanto il 3 gennaio. E sulla base di quella, dopo una settimana, l’istanza viene rigettata. «Tutto ciò senza disporre alcuna perizia, ma ordinando al Dap di individuare una struttura dove fare fisioterapia. Il Dap - aggiunge -, a stretto giro, ha chiesto a Voghera di verificare se ciò fosse possibile a Busto Arsizio. Ma non è successo più niente». Otto giorni dopo il Dap riscrive a Voghera, al gip e per conoscenza al pubblico ministero, evidenziando di non aver avuto più riscontri dal carcere di Voghera. «Malgrado il gip abbia avuto conoscenza di questa nota del Dap, dunque, non ha preso provvedimenti», aggiunge Calderazzo. Il 20 gennaio 2020 Gregoraci si toglie la vita, impiccandosi nella sua cella. E ora sul caso sono aperte due inchieste: una a Pavia, contro ignoti, e uno a Salerno, dove ad essere indagati sono i due giudici che hanno seguito il caso. I pm hanno però chiesto l’archiviazione. «Per il primo giudice ho chiesto io stesso che venisse scagionato», specifica l’avvocato, che però è convinto delle responsabilità del secondo. E aggiunge un dato: l’uomo non aveva colloqui con gli psicologi, nonostante le richieste del suo legale e malgrado il suo stato depressivo, che sarebbe stato “curato” soltanto con tranquillanti. La famiglia, conclude, ora è disperata. «E oggi, con l’assoluzione verticale di tutti i soggetti con una posizione simile alla sua - conclude - ci possiamo rendere conto della disperazione che lo affliggeva e di quanto la sua depressione sia aumentata in maniera esponenziale in quella cella».   di Simona Musco e Valentina Stella