Circa settecento firme in poche ore. Non solo in Sicilia, dove il bubbone delle intercettazioni delle conversazioni di avvocati e giornalisti è scoppiato prepotentemente. Tutti i fori d’Italia si sono uniti alla protesta lanciata ieri dall’ordine degli avvocati di Catania, che ha deciso di chiedere un intervento della ministra della Giustizia, del Consiglio Nazionale Forense e dell’Organismo Congressuale Forense affinché venga messa in atto «ogni iniziativa idonea a tutelare il diritto di difesa, il segreto professionale, nonché la libertà di ciascun soggetto di poter consultare il difensore di fiducia, confidando sulla natura strettamente riservata del colloquio». La nota a firma del presidente Rosario Pizzino e del segretario Maria Concetta La Delfa richiama l’articolo 103 del codice di procedura penale, che ai commi 5 e 7 stabilisce i limiti posti dal legislatore all’autorità giudiziaria quando ci si trova di fronte alle conversazioni tra un avvocato e un proprio assistito o consulente.   «Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori», si legge, e «quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente». Nulla di tutto ciò è accaduto a Trapani, dove la polizia giudiziaria non solo ha continuato a registrare le conversazioni tra la giornalista Nancy Porsia e cinque avvocati siciliani - alcuni dei quali si erano rivolti a lei in veste di consulente nel corso di alcuni delicati processi (in quel momento in corso) a carico di alcuni loro assistiti, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina -, ma hanno addirittura trascritto quelle conversazioni nell’informativa finale, allegata all’avviso di conclusione delle indagini. Solo così, grazie alla lettura degli atti, i professionisti coinvolti, pur senza essere indagati, in questa vicenda sono venuti a conoscenza di quella che, agli occhi di tutti, appare come una grave violazione del diritto di difesa e della segretezza delle fonti giornalistiche.   Leggi anche: I giornalisti e le intercettazioni: quell’amore tradito «L'affermazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani, secondo cui le intercettazioni non saranno utilizzate in sede processuale, non risolve la frustrazione del principio di libertà di difesa – sottolinea il Coa di Catania -. Seguendo tale impostazione, infatti, sarebbe possibile ascoltare le conversazioni tra il difensore ed il proprio assistito, ritenendo che tali dialoghi non potranno essere utilizzati processualmente, mentre, invece, la “ratio” del divieto di captazione è quella di impedire a chi svolge le indagini di entrare, comunque, in possesso di informazioni riservate circa l'attività difensiva». E così, di fatto, è stato. Il Dubbio, nei giorni scorsi, ha raccontato il clamoroso caso dell’avvocato Michele Calantropo, difensore di Medhanie Tesfamariam Behre, il giovane eritreo rimasto in carcere per tre anni per uno scambio di persona. Calantropo è stato intercettato al telefono con Porsia, alla quale aveva chiesto di testimoniare al processo che vedeva imputato il giovane, con lo scopo di ricostruire le reali dinamiche migratorie della Libia, diverse, secondo il difensore, da quelle ricostruite dalla polizia giudiziaria attraverso le sole intercettazioni telefoniche. Ad ascoltare la telefonata, all'insaputa dei due interlocutori, c’erano però anche gli uomini dello Sco. Gli stessi che al processo a carico di Behre furono interpellati dall'accusa come testimoni della sua colpevolezza. Un corto circuito, dunque, che avvalora i timori dell’avvocatura, oggi alla ricerca di una tutela effettiva.   «Il diritto alla segretezza dei colloqui tra avvocato ed assistito è tutelato anche dall'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e rientra tra le “esigenze elementari del processo equo in una società democratica” - continuano Pizzino e La Delfa -. A tal proposito, con recente sentenza, datata 17 dicembre 2020 (caso n. 459/18, Saber c. Norvegia), la Corte Edu, sezione V, ha affermato che sussiste un interesse generale all’inviolabilità delle conversazioni tra difensore e cliente». E sempre la Cedu, lo scorso primo aprile, nella sentenza Sedletska contro Ucraina depositata, ha sottolineato l’importanza della protezione delle fonti giornalistiche per la libertà di stampa in una società democratica, affermando che «le limitazioni alla riservatezza delle fonti giornalistiche richiedono il controllo più attento».   Leggi anche: Intercettazioni: Renzi, ‘vicino a giornalisti, ma quelle dei parlamentari?’ L’inchiesta di Trapani, dunque, fa sorgere più di un timore. E, soprattutto, pone il problema «del congelamento del diritto di difesa – continua il Coa di Catania - perché il difensore potrebbe non sentirsi libero di confrontarsi con l’assistito per il timore di essere intercettato». Da qui l’invito a via Arenula – che ha già inviato gli ispettori ministeriali a Trapani per approfondire la vicenda – a tutelare il diritto di difesa. Lo scopo è anche quello di avviare una riflessione, sulla continua svalutazione del ruolo dell’avvocato all’interno del sistema giustizia. Sul punto, nei giorni scorsi, la Camera penale di Roma ha tenuto un dibattito al termine del quale a tirare le somme è stato Renato Borzone, presidente della Camera penale di Roma dal 2002 al 2006. «C’è un problema culturale: è come se la cultura della giurisdizione appartenesse solo ai pubblici ministeri e non agli avvocati», ha sottolineato, evidenziando come l’abitudine, ormai diffusissima, di intercettare le conversazioni tra avvocato e assistito dipenderebbe da un pregiudizio che vuole l’avvocato «corresponsabile del reato commesso dal proprio assistito».