«La tutela delle fonti giornalistiche è uno dei cardini della libertà di stampa. Senza tale protezione, le fonti potrebbero essere dissuase dall'aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni di interesse pubblico. Di conseguenza, il ruolo vitale di controllo pubblico della stampa può essere minato e la capacità della stampa di fornire informazioni accurate e affidabili può essere influenzata negativamente».

Dovrebbero bastare le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo a mettere un punto alla vicenda che ha coinvolto la giornalista Nancy Porsia, la freelance intercettata dalla Procura di Trapani nel corso di un’indagine sui soccorsi delle Ong nel Mediterraneo. Parole scritte nella sentenza Sedletska contro Ucraina depositata il primo aprile, con la quale i giudici di Strasburgo hanno sottolineato l'importanza della protezione delle fonti giornalistiche per la libertà di stampa in una società democratica, affermando che «le limitazioni alla riservatezza delle fonti giornalistiche richiedono il controllo più attento». Un'interferenza da dell’autorità giudiziaria che potrebbe portare alla divulgazione di una fonte non può essere considerata “necessaria”, ai sensi dell'articolo 10 della Convenzione, «a meno che non sia giustificato da un requisito imperativo di interesse pubblico». E per stabilire l'esistenza di un “requisito imperativo” potrebbe non essere sufficiente dimostrare semplicemente che senza l’accesso a quelle fonti sarà impossibile esercitare l’azione legale: «Le considerazioni che la Corte deve tenere in considerazione per il suo controllo ai sensi dell'articolo 10 pongono l'equilibrio degli interessi concorrenti a favore dell'interesse della società democratica a garantire una stampa libera». Una sonora smentita alla tesi dell’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, dunque, che partendo dal presupposto che «la legge è uguale per tutti», ha sostenuto che è giusto intercettare una persona non indagata per arrivare a un indagato, perfino se di mezzo c’è la libertà di stampa.

Per la Cedu, però, il diritto dei giornalisti di non divulgare le proprie fonti «non può essere considerato un mero privilegio da concedere o sottrarre a seconda della liceità o illegalità delle loro fonti, ma è parte integrante del diritto all'informazione, da trattare con la massima cautela». Il caso in questione riguarda una giornalista di “Radio Free Europe” con sede a Kiev, responsabile, dal 2014, di un programma sulla corruzione. L’Autorità nazionale anticorruzione dell’Ucraina, nel corso di un procedimento a carico di un procuratore, aveva intercettato le telefonate con la sua compagna.

In un articolo online era stata diffusa la notizia di una riunione organizzata dal capo dell’Autorità con alcuni giornalisti, durante la quale erano state diffuse informazioni riservate sulle indagini, anche attraverso l’ascolto di alcune registrazioni tra il procuratore e la sua compagna, che includevano questioni relative alla vita privata della coppia. Da qui la denuncia della donna, sulla cui base era stata avviata un’indagine, condotta attraverso l’accesso, per 16 mesi, ai tabulati telefonici della giornalista ricorrente, che si è rivolta alla Corte europea chiedendo tutela per la propria attività professionale. Nella propria decisione, la Corte richiama precedenti pronunce in materia di perquisizioni a carico dei giornalisti a casa o sui luoghi di lavoro, nonché sul sequestro di materiale giornalistico, riconoscendo come tali misure rappresentino una drastica «interferenza» mirata a rivelare l’identità delle fonti, consentendo l'accesso a un'ampia gamma di materiale utilizzato dai giornalisti nello svolgimento delle proprie funzioni professionali.

Per i giudici, dunque, non solo gli inquirenti non possono chiedere ai giornalisti di rivelare il nome delle proprie fonti, ma non possono neanche cercare di ricavarlo indirettamente, attraverso sequestri o intercettazioni. E anche se la ricerca degli inquirenti non produce alcun risultato, il solo tentativo di intromissione rappresenta, per la Cedu, una violazione della libertà di stampa. E lo è, dunque, anche autorizzare quelle intercettazioni, azione definita gravemente lesiva e «grossolanamente sproporzionata».