Sembra che siano passati decenni ma ancora due anni fa all'odg c'era il progetto di autonomie rafforzate invocate soprattutto da Lombardia, Veneto e, in misura diversa Emilia-Romagna. Su quel fronte aveva rischiato di rompersi la maggioranza gialloverde ancor prima del Papeete e sul tavolo del secondo Conte, quello giallorosso, l'autonomia rafforzata era uno dei dossier più incandescenti, perché rifiutare la richiesta di aumentare ulteriormente le già vastissime prerogative assicurate alle Regioni dalla riforma costituzionale del 2001, il Titolo V, significava entrare in rotta di collisione non solo con la Lega ma con le regioni più ricche del Paese. La base della richiesta era, almeno in parte, il mito dell'efficienza lombarda e veneta. L'eccellenza della sanità in Lombardia, la regione da dove affluivano malati da tutta Italia, era la migliore dimostrazione dell'opportunità di delegare alle Regioni sempre più competenze, poteri sempre maggiori. La pandemia ha abbattuto così non uno ma due miti, ma ha messo in estrema difficoltà un partito solo, quello che sulla richiesta di autonomia estrema, federalista, in una certa fase addirittura secessionista, era nato e cresciuto, la Lega un tempo Nord oggi nazionale ma pur sempre nordica nelle radici. I miti sono quelli dell'efficienza lombarda e della forza propulsiva di un modello basato sulla centralità del privato rispetto al pubblico da un lato, della necessaria decentralizzazione dall'altro. La mitica sanità lombarda non ha retto neppure poche settimane all'impatto del virus. Il modello centrato sul privato, dunque sulle ospedalizzazioni, ha mostrato la corda subito. Poi è arrivato il disastro dei ricoveri dei positivi nelle Rsa, risoltosi in strage. Infine la rotta del piano vaccini, che ha messo a nudo l'inefficienza non solo del decantato "modello lombardo" nella sanità ma anche dell'intera burocrazia della Regione. Il Titolo V aveva già mostrato i propri limiti da un pezzo. La "legislazione concorrente" era fonte di infiniti equivoci e continui rallentamenti. Nella pandemia quel limite si è rivelato più che mai esiziale e la tentazione di uscire dall'ambiguità potenziando la decentralizzazione ha ricevuto un colpo ferale. Per la Lega la mazzata rischia, una volta usciti dalla pandemia, di rivelarsi tremenda. Il tentativo di Salvini di dar vita a una Lega diversa, ideologica più che centrata su una rappresentanza di interessi essenzialmente territoriali, sovranista invece che federalista, era naufragato già prima della pandemia. La forza della Lega resta il suo essere il partito che più di ogni altro sa rappresentare interessi specifici non l'essere un partito ideologico o d'opinione. Nella competizione interna alla destra, inoltre, il vero discrimine tra il partito di Salvini e quello di Giorgia Meloni, del resto, è proprio nella difesa del centralismo che FdI eredita dalla destra storica del Msi e di An, contrapposta al federalismo che invece la Lega non è mai riuscita a lasciarsi alle spalle. Anche nel momento glorioso di Salvini, quando galoppava nei sondaggi, il patto non scritto ma ferreo con i territori che erano la sua roccaforte è sempre rimasto quello per cui, retorica da comizio a parte, la Lega si impegnava a difendere prima di tutto proprio il progetto di autonomia rafforzata.Quella difesa si basava però sul consenso di una parte maggioritaria della popolazione locale e sulla difficoltà per tutti di opporsi a un disegno che sembrava vantare successi enormi e prometteva vantaggi concreti per tutti, persino, in prospettiva, per le regioni al momento più arretrate.Dopo la pandemia Salvini dovrà fare i conti con il doppio fallimento di quell'ipotesi, reso concreto e immediato dal coinvolgimento diretto del Carroccio nel discredito che sta sommergendo la Giunta lombarda, oltre che nel disastro del modello partorito da altre giunte sostenute a spada tratta dalla Lega, in particolare quelle di Formigoni. Si può dunque capire quanto profonda debba essere oggi l'irritazione del leader leghista nei confronti di Fontana e della sua fallimentare gestione. Ma l'ira servirà a poco e di qui a pochi mesi Salvini dovrà fare i conti con la distruzione ella sua principale vetrina: il modello della Lombardia.