«Mi sento molto più leggero. Non ho mai perso la speranza: quando sai di essere innocente pensi sempre che, prima o poi, riuscirai a dimostrarlo. E credo ancora nello sport: nonostante tutto, è bello, tanto bello». È passato un mese da quando Alex Schwazer, il marciatore italiano medaglia d’oro alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, è stato prosciolto dal gip di Bolzano. L’atleta non era ricaduto nel vortice del doping. Non aveva mentito quando, dopo lo scandalo che gli costò le Olimpiadi di Rio, giurò solennemente di non aver fatto nulla, di essere pulito, di essere innocente. E per accertare questa verità ci sono voluti cinque anni. Una verità che è ancora più complessa di quanto si potesse immaginare: a suo danno si era azionata una macchina del fango che ora rischia di ritorcersi contro i manovratori. Il 22 giugno 2016, dopo un controllo a sorpresa della Iaaf (la federazione mondiale di atletica leggera) effettuato il primo gennaio, Schwazer risultò di nuovo positivo. Secondo quell’esame, nel suo corpo c’era una quantità troppo alta di anabolizzanti e steroidi. Il 10 agosto, poco prima della 20 chilometri di Rio, il Tas lo condannò a rimanere otto anni fuori pista. Ma quelle provette, ha sentenziato il giudice, molto probabilmente sono state manipolate per farlo fuori. La sua colpa: aver testimoniato contro i medici accusati di consigliare doping agli atleti.

Come ci si sente dopo una battaglia del genere?

Sono stato molto felice per l’archiviazione. Sono passati tanti anni, anni di lotta e di battaglia, e questa ordinanza chiude finalmente la vicenda. Quando combatti per avere giustizia e riesci a raggiungere il tuo obiettivo ti senti molto più leggero.

Il gip dice una cosa fortissima: c’è stato un complotto ai suoi danni. Come si sta al centro di una macchinazione del genere?

È una situazione assurda. Io sono solo un atleta e la controparte in tribunale erano istituzioni molto forti e potenti. Avevo sempre dentro di me la speranza di riuscirci, anche se ci sono stati momenti molto amari e difficili da superare. Ma per arrivare alla verità non avevo altra scelta.

La sua storia inizia dopo Pechino, quando ha deciso di fare ricorso all’epo. Cosa le era successo?

Probabilmente, dopo la vittoria qualcosa dentro di me è cambiato. Mi sentivo un po’ arrivato, diciamo così. Avrei dovuto fermarmi, riposare. Ma dall’altra parte c’era anche l’agonista in me che comunque voleva andare avanti e migliorare. Ed è arrivato un momento in cui, a causa del fatto di non aver mai staccato, di non aver mai fatto una pausa, ho sentito una grande stanchezza dentro. Allora non avevo la forza di dire: ok, sto un anno senza gareggiare, faccio altro per poi tornare motivato e in equilibrio. Sono andato avanti e alla fine, in quel periodo di grossa debolezza, mi sono fatto influenzare dal fatto che comunque in Russia, allora, c’è stato un doping di Stato. Il sistema di controllo non funzionava. A Londra mi sono detto: o mi fermo o faccio le Olimpiadi come le faranno i miei avversari russi. E purtroppo ho scelto la seconda opzione.

Il mondo dello sport è inquinato dal doping e lei ci è caduto dentro. Nessuno l’ha aiutato in quel momento di debolezza?

Nel mondo dello sport conta la prestazione, principalmente. La persona conta meno. Conta il fatto che tu sia un atleta forte. C’è l’aspettativa di portare a casa un risultato importante.

Si è come delle macchine, insomma.

Un po’ sì, perché bisogna in qualche maniera funzionare. Nessuno in quel momento è stato attento a quello che mi stava succedendo come persona.

I medici a cui si è rivolto non hanno denunciato, anzi hanno avallato quel sistema. Poi è arrivato Sandro Donati. Come ha cambiato la sua vita?

Mi sono rivolto a lui perché avevo dentro di me questa grande voglia di tornare alle gare, avevo voglia di allenarmi, di confrontarmi con gli altri. L’ho scelto anche perché volevo dare delle garanzie in più, volevo dimostrare di tornare alle gare da persona pulita. Lui combatte da sempre tutto quello che ruota attorno al sistema antidoping. L’ho scelto, oltre che per le capacità tecniche, per fare un progetto.

Lui è l’altra vittima di questa storia. Qual è stato il momento più duro in attesa della verità?

Ci sono stati tanti momenti difficili. Non saprei dirne uno. È stata una lotta per ogni singolo passo che si doveva fare. Già solo il fatto che il giudice italiano ci abbia messo un anno per ottenere le provette sequestrate in Germania fa capire che bisognava combattere per ogni singola cosa. Sia io sia Sandro.

C’è stato mai un momento in cui ha temuto che non si arrivasse ad avere giustizia?

Quello no. Ci sono stati momenti in cui magari mi appariva più evidente il fatto fosse una battaglia estremamente difficile. Ma la speranza non l’ho mai persa, perché quando sei innocente ci credi fino alla fine di poterlo dimostrare. Poi c’è stata la volontà evidente del giudice di andare fino in fondo. E questo mi ha dato anche forza.

C’è stato però anche chi dubitava della sua innocenza, nonché la gogna mediatica. Come ha passato quei momenti?

Ho seguito e seguo molto poco tutto quello che riguarda l’opinione pubblica in generale, perché sono convinto che queste cose, alla fine, ti tolgono solo energie e tempo che dovresti investire sulle cose veramente importanti. Non sono stato lì ad ascoltare e leggere quello che è stato detto o scritto. Sono andato per la mia strada con un unico obiettivo.

Si è ritrovato contro colossi che dovrebbero garantire la pulizia dello sport e invece hanno fatto il contrario. Com’è essere Davide e riuscire a battere Golia?

È difficile, perché hanno mezzi molto più grandi e importanti dei miei, anche per difendersi a livello giuridico. Sono tutte cose che hanno sommato difficoltà nella mia ricerca della verità. Ma la cosa che mi ha dato forza è stato il fatto di sapere di essere dalla parte del giusto. Non guardi tanto chi hai contro, ma pensi che non hai niente da temere e che sono loro, caso mai, ad avere qualcosa da temere.

Ora c’è l’incognita Tokyo. L’accusa a suo carico è stata archiviata, ma la squalifica ad otto anni rimane valida. Ha speranze anche per l’Olimpiade?

Io ho solo una possibilità, fare ricorso davanti al Tribunale federale svizzero. È molto difficile, le statistiche dicono che pochissimi casi, negli ultimi anni, sono stati accolti. Ma non ho niente da perdere ed è l’unica possibilità che ho per tornare alle gare. Io ci credo, ma è molto difficile.

Perché è così difficile se un Tribunale ha stabilito che lei è vittima di un complotto?

Con questo ricorso non verrà rivalutato il mio caso per intero, perché è un procedimento straordinario. Sarebbe molto diverso se io potessi essere di nuovo giudicato dal tribunale arbitrale dello sport. E allora potrei metterci dentro tutti gli ultimi 4 anni e mezzo. Ma per fare questo dovrebbero essere d’accordo tutte le controparti. E ovviamente non lo sono.

Ci crede ancora nello sport, dopo quello che è successo?

Sì, perché lo sport è come la vita. Ci sono cose belle e cose meno belle. Però questa passione è tuttora dentro di me, altrimenti non vorrei tornare in gara. Ci credo, nonostante tutto è una bella cosa. Molto bella.