Amministrare è diventata la sola ragion d'essere del partito e la “responsabilità” l'unica parola d'ordine in grado di fornire un minimo di identità comune tra realtà ostili

Torna o non torna? Ci ripenserà o tra meno di 10 giorni Nicola Zingaretti confermerà le dimissioni. La suspence è inevitabile. Il dimissionario contribuisce ad accentuarla. «Passo irrevocabile», fa sapere. Però «di lato», non indietro. Vai a capire cosa significhi. I capibastone in coro, gli amici e i rivali, invocano il ripensamento, chiedono di accettare il verdetto dell'Assemblea nazionale, e lo stesso diretto interessato cita appunto quel verdetto. Che in realtà è già scritto: richiesta unanime di ritiro delle dimissioni. Eppure come finirà la vicenda, se dramma o pochade, passo sofferto o mano di poker, importa in realtà in misura limitata. La scelta del segretario cambierà le cose. Ma più in superficie che non in profondità.

C'è un aspetto sconcertante nelle dimissioni di Nicola Zingaretti, dopo due anni di travagliata segreteria del Pd. Sono state annunciate con parole pensatissime, mai prima pronunciate forse in un partito. Quando mai un leader aveva giustificato il passo indietro, pardon di lato, affermando di provare vergogna per il suo stesso partito. Ma quella «vergogna» resta inspiegata. Il segretario parla di «posti e primarie», resta sul vago, non accenna neppure a questioni politiche. Per un partito politico, si sa, sono questioni secondarie. Irrilevanti. La reazione è congrua. «Che resti, che resti», gridano tutti. Guerini e Delrio, due tra i dissidenti più in vista, aggiungono che nei partiti il dibattito è fisiologico. Lo è davvero. O meglio lo sarebbe se ci fosse. Ma quale sia il punto di dissenso resta invece oscuro, non detto, mai chiaramente enunciato né dall'una né dall'altra parte.

In teoria dovrebbe trattarsi del progetto di alleanza con i 5S, sul cui altare Zingaretti ha scelto di sacrificare tutto, il numero secco sul quale puntare fino all'ultimo spiccio. Ma nella situazione data quell'alleanza è d'obbligo se si vuole sperare di non essere annientati dalla destra. Nessuno avrebbe l'ardire di contestare l'orizzonte. Il punto critico è dunque come arrivarci, questione ben più sfuggente ed evanescente, di quelle che è impossibile enunciare senza scivolare di nuovo nell'approssimazione insignificante.

Potrebbe trattarsi dello spirito con il quale si arriva a quell'alleanza obbligata, se in posizione subordinata oppure con velleità di guida e protagonismo. Ma anche in questo caso la disquisizione è tardiva. Nessuno ha avuto niente da ridire quando il Pd partecipava alla costruzione del mito di Conte come «punto di equilibrio più avanzato possibile». Nessuno ha obiettato quando Zingaretti, con decisione politicamente assurda, ha deciso di fare di Conte la sola alternativa possibile alla crisi del governo e alla caduta della maggioranza giallorossa. Per recriminare è decisamente troppo tardi. Così la crisi del Pd si snoda lungo percorsi ancora più impolitici di quelli della crisi dei 5S, dove un fronteggiamento politico, sia pur rozzo e semplificato, è innegabile.

Ma se la crisi sfugge a una catalogazione politica, rifugge dal farsi definire in termini politici pur essendo giocoforza politica, forse è il segnale di un male più radicale e profondo. Nel corso del tempo i partiti derivati dal Pci hanno sempre più sacrificato ogni connotato politico. Hanno smesso di rappresentare interessi sociali. Hanno reso gli stessi connotati “d'opinione” tanto generici da poter essere di volta in volta piegati a piacimento, a seconda delle convenienze e delle circostanze. Amministrare è diventata la sola ragion d'essere del Pd e la “responsabilità” l'unica parola d'ordine in grado di fornire un minimo di identità comune a quelle aree di amministratori a volte reciprocamente ostili, più spesso semplicemente estranee l'una all'altra.

Il Pd di Zingaretti, partito “postpolitico” è arrivato all'incontro con un Movimento che versa in condizione uguale e opposta. Un M5S animato da suggestioni generiche, malumori di pancia, moralismi tanto radicali quanto effimeri. Una formazione, a modo suo “prepolitica”. L'incontro tra queste due realtà, entrambe incapaci di intervenire sul proprio dna fino a tornare, o diventare, forze politiche propriamente dette, dotate di visione, orizzonte e rappresentanza di interessi, si è realizzata grazie a un collante a propria volta non politico: il nome, capitato più o meno per caso di Giuseppe Conte, il sostegno a un governo caduto il quale non è rimasto alcun cemento. Di questo disagio il Pd dovrebbe parlare e questo nodo scorsoio dovrebbe provare a sciogliere. Ma non può farlo perché da questo punto di vista tra Zingaretti e isuoi oppositori non c'è alcuna differenza. E dunque la situazione cambierà ben poco sia che Zingaretti torni segretario sia che venga sostituito.