Il linguaggio, si sa, è convenzionale. Vale a dire si esprime con termini che, appunto per convenzione di quella comunità che lo usa, hanno un determinato significato. I termini sono pertanto i “significanti”, e dunque utilizzarli e richiamarli sta a “significare” una certa cosa. Ciò vale per tutti i linguaggi, anche per quelli tecnici e, fra questi, quello giuridico (qui i significanti sono – di regola – elementi descrittivi o normativi, ma non vorrei complicare troppo il discorso). Quello che è sicuro, è che un qualunque termine, inserito in una disposizione di legge, convenzionalmente ha un suo significato. Parliamo allora della prescrizione. È, se si vuole per convenzione giuridica, una causa estintiva del reato (art. 157 c. p.). Attiene alla punibilità (penale) di un soggetto per ciò che ha fatto o che non ha fatto dovendolo fare (lo ha confermato parecchie volte la Corte Costituzionale, da ultimo anche in relazione al cosiddetto “caso Taricco”).

Qualora si realizzi il suo completo decorso, prima che intervenga un predefinito termine processuale, si determina l’estinzione del reato, quindi viene meno la punibilità di chi lo ha compiuto. In particolare, con la recente riforma cosiddetta Bonafede ( art. 159, 2° comma, c. p.), si è stabilito che con la sentenza di primo grado il corso della prescrizione rimanga sospeso sine die (rectius: bloccato). È dunque chiaro, pur nella attuale situazione di grande limitazione della sua efficacia come causa estintiva, che essa riguarda in ogni caso il reato e la sua effettiva punibilità. Si è talvolta discusso, in passato ( prima delle decisive pronunce della Corte Costituzionale), se una tale causa estintiva – pur così strutturata – potesse eventualmente avere una valenza processuale. Vale a dire se incidesse più sulla procedibilità (come fa la querela) che non sulla punibilità; in pratica determinando che sarebbero non procedibili i reati prescritti. La tesi in realtà era strumentale a poter dare alla prescrizione un minor rilievo, anche di carattere costituzionale.

Se avesse avuto valenza processuale, infatti, (forse) non sarebbe stata assistita dalle regole della retroattività favorevole, della conoscibilità e via dicendo. Peraltro, come detto, l’attuale interpretazione è pressoché unanime nel ritenerla un istituto di carattere penale sostanziale, con tutte le caratteristiche che ne conseguono. Del resto, considerarla un utile istituto penalistico è opinione che affonda le sue radici nei fondamenti di un diritto penale umano, liberale, di matrice illuministica.

Basti ricordare le parole di Cesare Beccaria, espresse nel fondamentale lavoro Dei delitti e delle pene, che costituisce ancora il caposaldo dell’illuminismo giuridico; fatti salvi quei delitti di tale gravità da non meritare l’oblio e la prescrizione (nel nostro codice quelli puniti con l’ergastolo: art. 157, ultimo comma, c. p.), il grande Maestro così si esprimeva per gli altri reati: «… devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l’esempio della impunità e rimane intanto il potere al reo di divenir migliore». Nel solco di tali principi, si è così affermata l’opinione che col passare del tempo dalla data di commissione del reato, ad un certo punto debba cessare la “pretesa punitiva dello Stato”, in quanto, sul piano general- preventivo, perde ragionevolezza lo stesso senso della risposta sanzionatoria, anche in relazione alla funzione rieducativa della pena (art. 27, 3° comma, Costituzione); segnalandosi altresì che decorso troppo tempo dal fatto, perde efficacia la stessa garanzia di un effettivo diritto di difesa.

Si può anche non concordare con simili opinioni di stampo liberale, ma una cosa comunque è certa: la prescrizione è una causa estintiva del reato, che incide sull’effettiva punibilità di chi lo ha commesso, e che riguarda la sua sfera soggettiva: diritto all’oblio, efficace diritto di difesa, ragionevolezza della eventuale sanzione.

E veniamo ai giorni nostri. In un tale scenario si sente parlare, come riforma che consentirebbe di superare gli attuali scenari di una prescrizione ridotta al lumicino (con l’ovvia conseguenza di giudizi quasi eterni), senza però urtare eccessivamente gli artefici di quella drastica disciplina, di una “prescrizione processuale”. In pratica, dalla sfera soggettiva dell’autore del fatto, si passerebbe a considerare unicamente il processo, e i suoi tempi, senza considerare il momento in cui il reato è stato commesso. La proposta è assolutamente irricevibile, perché illogica e in contrasto con gran parte delle regole del Sistema penale (quello che consta di un insieme organico e razionale di elementi costanti e di opzioni variabili, alterativo al caos, e non certo quel tragico “sistema giudiziario” evocato nel volume di Sallusti e Palamara).

Illogica, perché a questo punto il tema sarebbe sganciato dal momento della consumazione del fatto e dalle peculiarità del suo autore, come visto la sua difesa, la sua personalità, la funzione rieducativa della sanzione e, in sintesi, da tutto ciò che concerne la “punibilità” e la pretesa punitiva. Confliggente col Sistema penale, perché bisognerebbe modificare tutte le norme che la disciplinano come istituto sostanziale, rivisitando a questo punto anche quelle relative al ne bis in idem processuale. La decorrenza dell’istituto dall’inizio del procedimento, anziché dalla commissione del reato, non determina infatti un risultato di “prescrizione” del fatto, ma di estinzione del processo. E qui i “significanti” non sono fra loro fungibili, perché richiamano “significati” ben diversi. Apparente sarebbe poi il superamento della “irragionevole durata del processo”. Perché il termine iniziale sarebbe nella piena ed esclusiva disponibilità di chi inizia il procedimento ed esercita l’azione penale. Il diritto, tutto il diritto, è pieno di fictio iuris; basti pensare all’istituto della persona giuridica, al reato continuato, alla stessa “estinzione del reato” (in realtà il fatto illecito commesso rimane immutato).

Ma una cosa è creare delle astrazioni per rendere una disciplina di cui si avverte la necessità; altra è “inventarsi” un istituto del tutto sganciato dalla realtà normativa e dalla speculazione scientifica. In pratica la “prescrizione processuale” non esiste e non può esistere, poiché si tratta solo di una “estinzione” del processo, che nulla ha a vedere con la prescrizione, quella frutto di una elaborazione dogmatica e normativa che affonda le sue radici nell’illuminismo giuridico. C’è solo da sperare che nell’ambito delle tante riforme che è lecito attendersi nel campo della giustizia penale (dalla separazione delle carriere tra giudici e pm, alla rifondazione e ristrutturazione del Csm, al recupero del principio dell’oralità e della formazione della prova, al potenziamento dei riti alternativi e via dicendo), un legislatore frettoloso e timoroso non voglia perdere l’occasione di una riforma delle caratteristiche dell’istituto della prescrizione in termini quantomeno accettabili.