«Non esiste una società, specialmente complessa, che non abbia bisogno delle élites», lo diceva nell’ottobre del 2018 in una precedente intervista al Dubbio il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, aggiungendo «mi rendo conto di essere controcorrente, ma lancio la provocazione». Detto fatto. Nei mesi successivi si sviluppò un vero e proprio dibattito tra gli intellettuali italiani, a cominciare da Ernesto Galli della Loggia che accusò le élites italiane di autoreferenzialità, di preferire i rapporti personali e il familismo alla sana competizione tra talenti. Seguito dallo scrittore Alessandro Baricco secondo il quale era «andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Vuole che si scriva nella Storia che le élites hanno fallito e se ne devono andare». Ezio Mauro si poneva una serie di interrogativi: «Possiamo vivere senza élites? Come si è arrivati al loro suicidio sommerse dalla disapprovazione generale? Quanto tempo impiegheremo a considerare élites la nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia?».

Professor De Rita, nel 2018 la sua provocazione sembrava esaurirsi in un dibattito tra intellettuali. Invece siamo arrivati al governo Draghi: è la rivincita delle élites?

Oggi le élites non sono un areopago di intellettuali. Forse nell’antica Grecia sì, ma oggi in Italia ci sono diversi meccanismi elitari che stanno emergendo. Se si sfogliano i giornali degli ultimi giorni ci si rende conto che sono pieni di reti elitarie. Su tutte quella dei grand commis di Stato, che fino a ieri sembravano essere fuori dal sistema e, invece, sono presenti eccome. Si tratta di una élite settoriale, di esperti tecnici e giuridici. In un recente articolo sul Foglio vengono citati una decina di banchieri, tutti nati a Roma, da Carlo Messina ad Andrea Orcel ad andare avanti. Anche questo è un segmento elitario di una determinata realtà economica che, però, non fa élite. Nella nostra tradizione, come diceva Gramsci, l’élite significa “avere un’idea di società e fare di tutto per perseguirla” e in questo caso si può parlare di egemonia. Quella risorgimentale era una élite: da Cavour a Leopardi e a tutti coloro che hanno partecipato a formare l’Italia, i quali avevano chiara un’idea di società e l’hanno perseguita. Oggi bisogna interrogarsi, invece, su che tipo di società hanno in mente questi segmenti elitari formati da una decina di banchieri, piuttosto che da un gruppo di consiglieri dello Stato. Tenendo presente che senza questi ultimi nessuno sarebbe in grado di elaborare un corretto testo legislativo per esempio.

Quindi possiamo dire che l’élite, intesa nella sua accezione massima, è ancora latitante?

Ripeto, ne abbiamo dei pezzi che non formano la élite, non fanno, cioè, un gruppo elitario che pensa in termini egemonici. Avere solo l’interesse di mandare avanti una banca, insieme ad altri dieci banchieri, è molto lontano da quell’avere una idea di società. Oggi però si va configurando un sistema sociale nel quale, almeno a macchia di leopardo, l’élite ritorna.

E sulla scena è arrivato Mario Draghi.

Parliamo di un personaggio incredibile, nel senso che ha una sua capacità di imporre la sua presenza e la sua linea egemonica senza parlare. In una società che non ha élite e non ha leader il fatto che ci sia una persona come Draghi che impone la sua presenza dà un senso di fiducia.

Volendo fare una riflessione un po’ scherzosa per capire il livello del carisma internazionale di Mario basterebbe mettere a confronto due foto. Una apparsa sui giornali di domenica nella quale Draghi e Angela Merkel si sorridono e non si può far a meno di notare l’occhio quasi sognante della Cancelliera tedesca. L’altra, di molti anni fa, fotografa il momento in cui Ciampi presentava Draghi alla regina Elisabetta, che di solito non guarda nessuno, lo fissava anche lei con aria sognante. Evidentemente Draghi ha un magnetismo che attira e rassicura.

Mario Draghi ha da subito imposto un suo stile che è in linea con quello che lei dice da qualche anno: basta con la politica fatta a colpi di tweet, trasformata in “tutto il calcio minuto per minuto”.

Qualcuno doveva cominciare a dirlo. Draghi non usa i social, non perché gli conviene, perché sa che, bene o male, il suo mondo è quello della grande finanza e dei rapporti internazionali. Tornando alle foto quella di domenica scorsa rappresenta tutto questo: saluta i componenti del G7 come se fossero i compagni di squadra del calcetto. Si fida della sua capacità di stare in silenzio e di fare silenzio.

E siamo arrivati al punto che i massimi esponenti del populismo, i 5Stelle e la Lega di Salvini, oggi esaltano Mario Draghi.

È abbastanza normale, visto il punto in cui si era arrivati. Hanno chiara l’idea che debba “passa’ ‘ a nuttata”. Non è una conversione in eterno, è un adeguarsi a una situazione. Un buon politico si adatta, non si mette a fare la battaglia contro i mulini a vento.

Finalmente con Draghi, riprendendo una sua frase di qualche anno fa, è giunto il momento di puntare sull’etica della responsabilità?

L’etica della responsabilità è una fatica immane: vuol dire essere responsabili verso sé stessi, gli altri e il sistema. Cito spesso Dietrich Bonhoeffer ( teologo luterano tedesco protagonista della resistenza al Nazismo ndr) che, quando era in carcere, sull’etica scrisse che “di solito noi che parliamo di etica abbiamo l’etica delle buone intenzioni. Invece la persona etica è quella che si prende anche la responsabilità di cose spiacevoli, perché bisogna calarsi nella realtà e sporcarsi con il quotidiano”. Non è un caso che Bonhoeffer finì impiccato, per aver avuto rapporti con i servizi segreti e aver partecipato, sia pure indirettamente, all’attentato contro Hitler.

Adesso Mario Draghi ha deciso di sporcarsi le mani.

Onestamente non avevo previsto che accettasse l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri. Lo farà con fatica. Non so se la cultura di Draghi sia simile a quella di Bonhoeffer, ma l’etica della responsabilità vuol dire proprio prendersi in carico anche cose spiacevoli e faticose.

Il Censis, nel 54° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, ha definito l’Italia “una ruota quadrata che non gira”. Nel 2021 cambierà qualcosa?

Esiste una ideologia Censis secondo la quale lo sviluppo non è fatto né da un piano, né da un fondo e né da accordi internazionali. Lo sviluppo è fatto dai comportamenti del sistema.

La domanda da porsi è: i soggetti italiani, dalle famiglie alle imprese, dalla Pubblica amministrazione a noi ricercatori, come escono o come vogliono uscire dalla pandemia? Perché se questi soggetti, come ho scritto qualche settimana fa sul Corriere della Sera, sono in “letargo”, vivono in trance, sono contenti di mettersi la mascherina, rispettare le distanze, adeguarsi alle zone di vario colore, e di non uscire negli orari prestabiliti e basta è evidente che non c’è speranza. Altro che ruota quadrata, si rischia il freno completo. Noi del Censis siamo in allerta ad attendere il soffio di vita che possa far uscire i nostri concittadini da questa inerzia, magari un po’ arrabbiata perché vorrebbero tornare a una vita normale. Insomma che ci sia un segnale di voler riprendere a fare sviluppo.

Spesso si paragona il Covid- 19 alla guerra e il recovery plan è considerato il nuovo piano Marshall: sono similitudini corrette?

Assolutamente no. Chi come me, anche se ero ragazzino, ha vissuto la guerra sa che parliamo di tutt’altra cosa. Abbiamo sentito fischiare le bombe sulle nostre teste, abbiamo visto migliaia di aerei passare nei cieli d’Italia, palazzi e strade distrutte e le mitragliette delle Ss a un palmo dal naso. La pandemia non è una guerra e questo paragone non funziona, anche negli aspetti più positivi: in una guerra conosci e vedi il nemico e, a un certo punto, finisce. Si firma il trattato di pace e si pensa a ricostruire. Con la pandemia non c’è la dead line per ripartire. Anche il paragone tra piano Marshall e recovery plan non funziona.

Il piano Marshall aveva certamente l’obiettivo di aiutare popoli, che si erano combattuti a morte, ormai allo stremo delle proprie forze. Chi ha visto la Germania degli anni 50 può capire a che cosa mi riferisco, ho ancora negli occhi Colonia distrutta, la sua cattedrale, i palazzi, le strade: un incubo. Il piano Marshall ha significato ricostruzione. Gli italiani, grazie a quei fondi, hanno ricostruite le case, le aziende, hanno acquistato macchinari per le attività e hanno ricominciato a vivere. Non bisognava inventarsi il futuro, ma soltanto ricostruire quello che la guerra aveva distrutto e grazie al piano Marshall era abbastanza facile. E il risultato è stato il successivo boom economico.

Anche l’obiettivo del recovery plan è questo.

Nella situazione attuale non si può dire: ricostruitevi la casa, l’azienda. Oggi non si sa qual è la prospettiva che la società attuale si dà.

C’è una lunga discussione sul perché la Germania ha voluto questo recovery fund, che finanzia in buona parte. Perché ha ambizioni di primato occidentale, simile a quelle degli Stati Uniti nel 50, oppure ha un’idea di quella che sarà la prospettiva a trent’anni e se la fa pagare dal Fondo? Non lo sappiamo.

Il recovery plan ha dei punti fermi: transizione energetica e ambientale e innovazione digitale.

Se fossero solo delle proposte del dopodomani non sarebbero in grado di far partire gli atteggiamenti individuali come ci riuscì il piano Marshall. Allora chi aveva una casa distrutta la ricostruiva e otteneva il risarcimento come danno di guerra. Un ventenne di oggi su che cosa si gioca il futuro?

Purtroppo sia nelle implicite valutazioni, o supposte tali, della Merkel sia nelle dichiarazioni programmatiche del governo italiano non si sa quale sarà il nostro futuro.

Nessuno mi convincerà che l’italiano medio si entusiasma per la digitalizzazione e per la transizione ambientale. Sul bonus 110 per cento per riqualificare gli alloggi forse potrebbe avere un sussulto, perché parliamo di qualcosa di reale. Il resto delle proposte in campo, secondo me, non hanno la capacità di smussare gli angoli della “ruota quadrata”. Ci attende un percorso tortuoso, magari potrebbe anche accadere, come dicono molti, che la faticosa innovazione tecnologica, a un certo punto, abbia uno scatto in avanti, diventi un fenomeno di massa, e renda tutto più semplice. È già accaduto nel secolo scorso con l’auto, con il computer, con il telefonino. Si tratta, però, di oggetti sempre più piccoli, come le nostre ambizioni e desideri, ma se sono piccoli non fanno massa.