La Consulta è tornata a pronunciarsi sull’impianto della legge Fornero e del Jobs act, ‘bocciando’ nuovamente la filosofia di un sistema costruito sull’assunto che la riduzione delle tutele renda il lavoratore più appetibile per le imprese. Una prospettiva che, ispirata all’idea secondo cui la deregolazione del mercato del lavoro  sia di stimolo alle assunzioni, è stata nella sostanza smentita dai fatti e dai numeri: l’occupazione non è cresciuta, anzi il lavoro si è ancor più precarizzato, semplicemente perché il mercato spesso non c’è. Il giudice delle leggi, come era già accaduto una prima volta, ha nuovamente escluso che il sistema sanzionatorio dei licenziamenti illegittimi possa restare affidato a criteri meramente meccanicistici.  Infatti, con la sentenza 194 del 2018, aveva dichiarato l’incostituzionalità del meccanismo che determinava l’entità del risarcimento del danno in caso di licenziamento esclusivamente in base alla durata del rapporto di lavoro. Stavolta, con la pronuncia resa mercoledì scorso, la Corte costituzionale ha affermato l’irragionevolezza di una diversità nel trattamento sanzionatorio tra il licenziamento economico e quello per giusta causa nel caso in cui venga accertata l’inesistenza dei relativi motivi. Infatti, nel sistema introdotto con la legge Fornero, mentre al licenziamento per giusta causa, all’accertamento della arbitrarietà del recesso, seguiva necessariamente la reintegra, per quello motivato da causale economica di cui fosse stata accertata l’insussistenza, la scelta tra reintegra e pagamento di un’indennità risarcitoria era lasciata alla valutazione del magistrato. In particolare, la Consulta  ha stigmatizzato l’irragionevolezza dei due regimi sanzionatori per contrasto col principio di uguaglianza posto dall’articolo 3 della Costituzione, statuendo l’obbligatorietà della tutela reintegratoria in tutti i casi in cui venga accertata l’insussistenza del fatto oggettivo. Un intervento certamente importante anche perché destinato a incidere sulla portata dell’eterno dibattito in materia di politiche del lavoro. Da troppo tempo il nostro legislatore sta scegliendo di intervenire sulle regole del contratto di lavoro, specie nella sua dimensione individuale, per sostenere percorsi di riforma del sistema che diano slancio all’economia. Il risultato è che troppo spesso, dietro norme scritte frettolosamente, si sono combattute, proprio nel tempo della caduta delle ideologie, battaglie puramente ideologiche. E quella sull’articolo 18 dello Statuto ne resta l’esempio più evidente. Una norma di legge che interessa, anche statisticamente, meno del 10% dei lavoratori del nostro Paese è stata presentata come la cartina di tornasole dell’efficientamento o meno di un mercato del lavoro, il nostro, che invece resta tragicamente ingessato per ragioni completamente diverse: dal costo lordo eccessivo rispetto ai netti in busta paga alla rigidità dell’assetto organizzativo, passando per l’assenza di politiche di formazione professionale e di incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Insomma, la semplicistica idea che un mutamento delle regole del licenziamento desse slancio all’economia non ha trovato riscontro nella realtà. È auspicabile che la bocciatura anche ad opera della Corte serva a far comprendere che questa scorciatoia non porta da nessuna parte. *Avvocato giuslavorista e professore di Diritto del Lavoro all’Università di Napoli