«La sentenza del giudice Clayton Horn è stata accolta con applausi e acclamazioni da un pubblico gremito che ha offerto la più fantastica collezione di barbe, camicie a collo alto e acconciature italiane mai vista nei sudici recinti delle sale di giustizia americane».

Così scriveva il San Francisco Chronicle all’indomani dell’assoluzione dell’editore Lawrence Ferlinghetti, accusato di oscenità dallo Stato della California. Era il 3 ottobre del 1957 e il processo al profeta della beat generation fu un circo: aveva tenuto banco per mesi sui media d’oltreoceano, mobilitando la pittoresca comunità di hippies, frichettoni e intellettuali che gravitava attorno alla libreria di Ferlinghetti.

Lo avevano arrestato il 21 maggio assieme al socio e libraio di origine giapponese Shigeyoshi Murao.

Due giovanissimi agenti di polizia, Russell Woods e Thomas Pagee, entrano nella City Lights Bookshop, al 261 di Columbus Avenue, comprano al prezzo di 75 centesimi un libro di poesie di 57 pagine intitolato Howl and Other Poems. Lo aveva scritto il visionario Allen Ginsberg e conteneva riferimenti espliciti all’uso di droghe e al sesso libero, etero e omosessuale. I poliziotti gli mostrano il mandato d’arresto e gli intimano di seguirli in commissariato; non sapevano che quel pezzo di carta compilato dalla zelante procura di San Francisco avrebbe lanciato sulla scena culturale americana il movimento beat.

Assistito dall’Unione per le libertà civili (Aclu), Ferlinghetti deve rispondere alle accuse mosse dal viceprocuratore Ralph McIntosh, un uomo d’altri tempi, arcigno e affusolato, devoto alla Bibbia e alle manette. Vagli a spiegare che l’Urlo di Ginzberg è un libro di poesie, che la letteratura non può tollerare la museruola della cesura, che il Primo emendamento della Costituzione protegge la libertà di pensiero e di espressione.

Gli interrogatori di McIntosh sono incalzanti, come un buldozer chiede a Ferlinghetti e Murao il significato di ogni singola frase del libro, una, dieci, venti volte, domande ossessive che a tratti sconfinano nel tragicomico: «Dovete dirmi che cosa significa “hipster dalla testa d'angelo che brucia per l'antica connessione celeste con la dinamo stellata nel meccanismo della notte”, dovete dirmelo!!».

Nonostante il fervore, McIntosh non riesce a dimostrare la “pericolosità” dell’opera, sostiene che quelle parole se trasmesse alla radio o in tv travierebbero milioni di giovani americani, ignora i meriti letterari dell’Urlo perché semplicemente, e in perfetta buona fede non è in grado di riconoscerli.

C’erano poi i precedenti; all’inizio del secolo le corti statunitensi impiegavano ancora i criteri della morale vittoriana importata dall’Inghilterra che fece bandire dalle dogane Mademoiselle de Maupin di Théophile Gautier, Casanova's Homecoming di Arthur Schnitzler e soprattutto l’Ulisse il capolavoro di James Joyce.

Quest’ultimocaso segnò una svolta: il giudice newyorkese John M. Woolsey non solo non ravvisò nulla di osceno nel romanzo dello scrittore irlandese, ma ne lodò «il valore estetico e la coerenza letteraria essenziale».

Tutto ruotava attorno al significato di «oscenità», categoria non protetta dal Primo emendamento, ma anche molto vaga, che una sentenza della Corte suprema riservava di stabilire ai singoli tribunali, caso per caso. Gli avvocati difensori e in particolare il celebre J. W. Ehrlich, sostennero che l’oscenità non è una qualità intrinseca dell’opera ma che esiste solo nella mente di chi legge, che Ginzberg aveva raccontato la sua vita e le sue esperienze senza l’intenzione di corrompere i lettori. «Honny soit qui mal y pense ( sia svergognato colui che pensa male», esclamò in francese Ehrlich, citando il famoso rimprovero ai suoi cortigiani del re d’Inghilterra Edoardo III.

Il giudice Horn, che teneva regolarmente dei corsi in una chiesa battista nel quartiere in cui viveva, era anch’egli un fervente religioso, ma anche una persona giusta e intelligente che ha affrontato il processo virgin mind, senza pregiudizi. Proprio come il suo collega John M. Woolsey valutò il contesto in cui l’Urlo era stato concepito.

In primo luogo non si è precipitato nel giudicare, non ha subito la pressione mediatica da nessuna delle parti in causa, si è preso il suo tempo per valutare. Ha trascorso intere settimane nel fare ricerche su casi simili e ha preso in grande considerazione le tesi dell’accusa e le repliche della difesa. Infine ha osservato che se le parole accusate di oscenità fossero state sostituite, l'opera avrebbe perso il suo significato letterario. Concludendo che la censura del libro, «distruggerebbe le nostre libertà di libertà di parola e di stampa».

Non sappiamo se la descrizione del San Francisco Chronicle e della stravagante fauna che seguì il processo a Lawrence Ferlinghetti fosse esagerata. Di sicuro però quando venne letta la sentenza di assoluzione l’aula di tribunale esplose in un urlo di liberazione.