Figuriamoci se Silvio Berlusconi non si lasciava perdere l’occasione per partecipare in qualche modo alla festa del “suo” Mario Draghi. Al quale ha telefonato di persona per anticipargli l’appoggio che la delegazione forzista gli avrebbe espresso nelle ore successive e scusarsi del divieto impostogli da medici e familiari di muoversi dalla villa in Provenza. Dove la figlia Marina lo ha affettuosamente e metaforicamente chiuso a chiave per proteggerlo dal Covid.

Quel “suo” nasce dalla convinzione di Berlusconi di essere stato lui nel 2011, ancora presidente del Consiglio, a volere e saper portare Draghi alla presidenza della Banca Centrale Europea.

Certo, il curriculum già internazionale dell’allora governatore della Banca d’Italia era tanto consistente da rendere difficile alla Cancelleria di Berlino o all’Eliseo una resistenza oltre un certo limite alla candidatura avanzata da Berlusconi. Al quale i vertici comunitari, a dire il vero, guardavano ormai più con diffidenza che con simpatia, preferendo spesso interloquire direttamente col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sino a metterlo qualche volta in imbarazzo. Ma, per carità, non ditelo al Cavaliere, convinto di essere stato lui, e soltanto lui, l’artefice di quel trasferimento di Draghi a Francoforte.

Si sa che Berlusconi è tanto orgoglioso quanto geloso dei suoi successi e gli dà fastidio doverli condividere con altri. D’altronde, ai tempi della sua sostanziale defenestrazione da Palazzo Chigi, sempre in quel fatidico autunno del 2011, egli fece buon viso al cattivo gioco della crisi del suo ultimo governo di fronte al nome del successore: Mario Monti. A proposito del quale Berlusconi non perse un istante per vantarsi di averlo voluto, da presidente esordiente del Consiglio nel 1994, a rappresentare l’Italia con Emma Bonino nella Commissione Europea. Anche Monti era in qualche modo “suo”, e continuava ad esserlo anche dopo essere stato confermato a Bruxelles dai governi successivi, di segno politico opposto.

Fu tanto orgoglioso di dovergli cedere Palazzo Chigi che Berlusconi, contrariamente alla prassi, volle controfirmare personalmente il decreto del Presidente della Repubblica con cui Monti veniva nominato a senatore a vita per alti meriti prima di ottenere l’incarico di presidente del Consiglio. Così peraltro quel poco che era, ed è, rimasto dell’immunità parlamentare poteva in qualche modo mettere al riparo il capo del nuovo governo da qualche iniziativa avventata di un sostituto procuratore della Repubblica. E chi più di Berlusconi poteva capire e condividere una simile cautela?

Va detto che Monti non si mostrò per nulla imbarazzato da tanto calore. E si compiacque della decisione di Berlusconi di interrompere, diciamo così, l’alleanza con la Lega di Umberto Bossi pur di votargli la fiducia. Quella del Carroccio fu invece opposizione dura, alla quale tuttavia si convertì pure Berlusconi in vista delle elezioni ordinarie del 2013. Che il Cavaliere, col fiuto e l’ostinazione che gli riconoscono anche gli avversari, ritenne di poter vincere se affrontate con la Lega. E ci sarebbe riuscito se Monti, per una sostanziale ritorsione in nome della difesa della propria “agenda” politica, non fosse sceso in campo pure lui con un movimento che poi si dissolse come neve al sole nella nuova legislatura, non prima però di impedire - come poi egli stesso si sarebbe più volte vantatouna candidatura vincente di Berlusconi al Quirinale per la successione a Giorgio Napolitano. Che infatti, fallite le corse di Franco Marini e di Romano Prodi, entrambi azzoppati dai soliti “franchi tiratori” dello schieramento di appartenen- za, fu confermato.

Lasciatemi esprimere con tutta franchezza la convinzione che Berlusconi, se fosse riuscito ad andare al Quirinale, difficilmente sarebbe finito dopo solo qualche mese in quella curiosa storia di un processo per frode fiscale celebrato in ultima istanza, quasi al limite della prescrizione, e conclusosi con la condanna del primo o fra i primi contribuenti italiani. Quello che è uscito proprio in questi giorni dai ricordi di Luca Palamara sugli intrecci fra magistratura e politica avvalora, a dir poco, la mia impressione.

Ma torniamo a Draghi e al suo governo, di cui si può dare ormai per scontato che nascerà con l’aiuto, a dir poco, di Berlusconi. Che è tornato d’altronde sulla scena già da qualche tempo, se mai ne è stato davvero allontanato, col progressivo logoramento del secondo governo di Giuseppe Conte. E’ un Berlusconi di cui non si capacita - giustamente dal suo punto di vista - il pugnace Marco Travaglio. Che ieri sul Fatto Quotidiano, nervoso anche coi pentastellati refrattari ai suoi consigli e ormai prenotatisi, secondo lui, al “suicidio assistito”, si chiedeva se davvero Draghi e persino Beppe Grillo, con tanto di fotomontaggio, si apprestassero a “governare con lo Psiconano”. Che naturalmente è diventato nel testo dell’editoriale, non bastando il dileggio fisico, il solito “pregiudicato amico dei mafiosi”.