«Un monito severo ed un’occasione di riflessione per chiunque operi a contatto con i detenuti, a non considerarli un semplice numero del procedimento, ma esseri umani, fors’anche talvolta sgradevoli, eppur sempre doverosamente meritevoli, proprio in ragione del loro stato detentivo, di un’attenzione anche superiore a quella dedicata ad un uomo libero nella persona, la cui dignità non perdono mai, pena la regressione a tempi oscuri oramai trascorsi». Quello firmato dal presidente della prima Corte d’Assise Tommaso Picazio è un duro atto d’accusa. Verso il sistema carcerario, verso la giustizia inquirente e giudicante, verso il sistema sanitario. Pezzi di un unico corpo colpevoli di aver abbandonato Stefano Cucchi.

Sono parole pesantissime quelle che motivano la sentenza che il 14 novembre del 2019 ha dichiarato prescritte le accuse nei confronti del primario del Reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini, Aldo Fierro, e di altri tre medici, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Un quinto medico, Stefania Corbi, è stato assolto “per non commesso il fatto”. Parole che certificano un fatto: la morte di Cucchi, come ha commentato il difensore della famiglia, Fabio Anselmo, è frutto di multifattorialità, riconoscendo le fratture come concause. E che se tutti avessero fatto il proprio dovere, il giovane geometra romano, arrestato per droga nell'ottobre 2009 e pestato con così tanta violenza da morire nel giro di una settimana, forse sarebbe stato ancora vivo. Cucchi non era solo un detenuto, recita la sentenza. «Era diventato un detenuto in una certa misura abbandonato a se stesso». Un detenuto la cui condizione psicologica non è stata tenuta in considerazione, una frustrazione ed una sofferenza ignorate «nella sua entità di essere umano durante l’udienza di convalida, sia dal giudicante che dal requirente i quali, evidentemente, non hanno ritenuto di dover tener conto, nel valutare le esigenze cautelari, delle condizioni generali psicofisiche del Cucchi». I sanitari che hanno avuto Cucchi in cura, al Pertini, avrebbero dovuto avere cognizione della particolare situazione psicologica di un detenuto, «aspetto necessariamente aggravato dallo stato di prostrazione psico- fisica che discendeva dal contingente quadro patologico in atto ( fratture, dolore, mancanza di autonomia fisica e via dicendo). Un festival di insipienze - scrive il giudice che deve aver prodotto una reazione, definiamola puerilmente sdegnata, da parte di un soggetto verosimilmente già portatore di proprie fragilità».

Il giudice evidenzia un fatto che dovrebbe essere ovvio, ma che ovvio, a quanto pare, non è stato: il momento iniziale della custodia cautelare rappresenta sempre un passaggio di grave impegno psicologico, che richiede tutta una serie di garanzie e cautele da parte di chiunque vi entri in contatto. «Tutto questo meccanismo, nella vicenda che ci occupa, occorre dirlo con molta chiarezza, ha fallito il proprio scopo», sentenzia Picazio. Che poi ammonisce le istituzioni che hanno avuto in custodia Cucchi, lasciandolo di fatto morire: «Lo Stato ha certamente il diritto di fare un prigioniero - si legge -, ma non di disinteressarsene. Questo è il terreno, del tutto trascurato, in cui una vicenda, dal punto di vista giudiziario banale ( un arresto per violazione in tema di stupefacenti), volge in pochi giorni in tragedia».

Troppo sbrigativo e troppo semplice, da parte dei medici, affermare che Cucchi rifiutava le cure ed i trattamenti e che, dunque, i sanitari siano esenti da responsabilità. Un’affermazione che riduce «ad un rango quasi mercantilistico» il trattamento sanitario, dimenticando che i protocolli prevedono un contenimento del paziente a rischio suicidio, valutazione che si ribalta, evidentemente, «se il paziente è un detenuto che instaura atti potenzialmente a rischio, anche di grave entità, per la propria salute. Un’evidente aporia». E non basta nemmeno sottolineare che Cucchi fu, semplicisticamente, sollecitato a nutrirsi: «Non ricevette mai, e da alcuno, un’informazione adeguata, dettagliata e completa in merito alle sue condizioni cliniche e ai rischi cui andava incontro». Per il giudice occorre ricordarlo: «Le sue condizioni di limitazione della libertà personale non lo privano dei diritti fondamentali propri della dignità umana». Ed è per questo che arriva ad una conclusione fondamentale: «I sanitari che operarono furono in colpa per imprudenza, imperizia e negligenza, non caratterizzabile in alcun modo e sotto alcun profilo come lieve». Impossibile stabilire il punto di non ritorno, ma «l’ipotesi che una diversa cura ( alimentazione adeguata, monitoraggio cardiaco), in particolare se messa in atto fin dai primi giorni di ricovero, avrebbe potuto evitare il decesso, impedendo il verificarsi dell’arresto cardiaco, o consentendo un intervento immediato al verificarsi dello stesso, è ipotesi plausibile e supportata dai dati scientifici disponibili». I medici del Pertini, inoltre, non valutarono in modo adeguato «l’ipoglicemia e la bradicardia» due «fattori d’allarme che avrebbero imposto cautela».