Lorenzo Cesa ha fatto bene ad esprimere tutta la sua incrollabile fiducia nella magistratura, pur con tutto il tempo che questa, come al solito, si prendera’ eventualmente per scagionarlo, magari senza neppure rinviarlo a giudizio e chiedergli scusa del fango già cadutogli addosso con la notizia dell’avviso di garanzia e perquisizione domiciliare.

Tempestivamente dimessosi da segretario dell’Udc già di Pier Ferdinando Casini sollevandosi - sospetto e in qualche modo sperodall’onere, imbarazzo e quant’altro dei contatti con Palazzo Chigi e dintorni per l’allargamento della maggioranza ai “volenterosi”, egli ha dalla sua per il buon esito della vicenda giudiziaria esplosagli fra i piedi i precedenti del famoso magistrato che se ne occupa: il mancato ministro della Giustizia Nicola Gratteri. Di cui l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nego’ nel 2014 la nomina caldamente propostagli dal presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Le retate che ogni tanto scattano per iniziativa di Gratteri sono ormai famose, oltre che per il clamore mediatico, per gli indagati e imputati che escono dalle fila strada facendo, prosciolti o assolti. L’ultimo è l’ex presidente della regione calabrese Mario Oliviero, detronizzato a suo tempo proprio per ragioni giudiziarie e infine assolto dall’accusa di corruzione, ma dopo che per le sue disavventure sono cambiati ai danni del proprio partito, il Pd, pur lesto a scaricarlo, e a vantaggio del centrodestra gli equilibri elettorali e politici della Calabria.

Cesa ha insomma buone probabilità almeno statistiche di cavarsela anche adesso, come ai tempi della Tangentopoli della cosiddetta prima Repubblica e di altri problemi avuti nella seconda o terza. Pure l’associazione a delinquere di stampo o modalità mafiosa di cui è sospettato adesso l’ex segretario dell’Udc e mancato ministro dell’Agricoltura, secondo le indiscrezioni raccolte sulla Stampa da Flavia Perina, già deputata della destra di Gianfranco Fini, potrebbe sfiorire nell’inconveniente, lamentato dalla collega di partito e senatrice Paola Binetti, dei segretari di formazioni politiche costretti per doveri d’ufficio a frequentare “gente d’ogni tipo”.

Resterà comunque a carico anche di Cesa, come in passato di politici di ogni colore, pur se prevalentemente di destra e dintorni, almeno nella accezione della sinistra depositaria delle migliori virtù, sotto l’abito o il soprabito della “diversità” vantata dalla buonanima di Enrico Berlinguer e dei suoi esegeti, la pratica purtroppo ricorrente della giustizia “ad orologeria”. A proposito della quale il meno che si possa dire, volendone avere rispetto e non correre il rischio di guai di ogni tipo, è che certa magistratura è sfortunata per la frequente coincidenza di retate, arresti e avvisi di garanzia con passaggi politici di una certa importanza.

Nel 1989 un orologio di puntualità elvetica volle che l’esplosione di Tangentopoli con l’arresto del socialista Mario Chiesa in flagranza di reato, come teneva sempre a sottolineare l’allora capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli, avvenisse nelle prime battute di una campagna elettorale che sembrava destinata, secondo i progetti dei vertici politici della maggioranza di quel tempo, nel ritorno di Bettino Craxi a Palazzo Chigi e nell’ascesa al Quirinale di Arnaldo Forlani.

All’inizio della nuova legislatura lo stesso o un altro orologio di uguale puntualità volle che i fascicoli giudiziari degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli arrivassero e fossero sfogliati nella giunta delle autorizzazioni a procedere della Camera, con tutte le fughe di notizie del caso, mentre i partiti della maggioranza confermata dalle urne, sia pure con margini ridotti, si apprestavano a formalizzare la designazione del leader socialista alla guida del nuovo governo. Cui il nuovo capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro sbarro’ la strada dopo avere inusualmente allargato le consultazioni di rito a Borrelli ricavandone l’impressione, quanto meno, che Craxi stesse vicino al coinvolgimento in Tangentopoli, formalizzato tuttavia sei mesi dopo.

Nel 1994, agli esordi della cosiddetta seconda Repubblica inaugurata a Palazzo Chigi da Silvio Berlusconi quello stesso orologio o un altro volle che gli umori antigovernativi di Umberto Bossi, incoraggiati al Quirinale da Scalfaro in persona, incrociassero le indagini della Procura di Milano per corruzione sul presidente del Consiglio, avvisato dell’inchiesta a mezzo stampa mentre presiedeva a Napoli un summit sulla malavita. Segui’ a breve la crisi perseguita dall’ormai ex alleato leghista.

Un’altra spinta ad una crisi in gestazione contro Berlusconi sarebbe arrivata nel 2011 dalla vicenda giudiziaria dei suoi personalissimi passatempi sessuali, così come la condanna definitiva per frode fiscale, in una sessione estiva della Corte di Cassazione, arrivo’ in tempo nel 2013 per indebolire le cosiddette larghe intese cui Berlusconi aveva appena contribuito col governo di Enrico Letta.