Il processo penale non consuma vendette né pubbliche né private. Meglio. Non dovrebbe consumarne e, soprattutto, non dovrebbe essere percepito come il luogo in cui chi ha subito un torto vede necessariamente affermate le proprie ragioni con le manette ai polsi del colpevole. Per il ristoro delle vittime esistono i tribunali civili ove, in tutto il mondo, chi ha subito un danno qualunque trascina il responsabile per ottenere un equo risarcimento a prescindere da ogni condanna penale. Come non ricordare il caso di O. J. Simpson, assolto dall’accusa di aver ucciso la moglie e un amico di questa, eppure obbligato in sede civile a risarcire con otto milioni di dollari i parenti dell’uomo.

Era il 5 febbraio 1997 quando una giuria civile riconobbe ai parenti di Ronald Goldman, trucidato assieme a Nicole Brown Simpson il 12 giugno 1994, l’enorme somma di denaro. «Giustizia è finalmente fatta» ebbe a dichiarare come riportano le agenzie del tempo - «con la voce spezzata dal pianto il padre di Ronald Goldman». Un contegno impensabile nel nostro paese in cui è lecito immaginare piuttosto il risentimento e la rabbia dei parenti per l’assoluzione di un presunto colpevole che avrebbero avuto le prime pagine dei giornali, delle news e dei talk show.

Sentenza di Viareggio, la decisione della Cassazione tra dolore e diritto

Tenere distanti e distinte le vittime dei delitti dal processo penale è una scelta di civiltà che il nostro ordinamento non ha mai voluto operare e che troppi casi di cronaca ci consegnano come probabilmente necessaria. La parte civile partecipa al processo penale aspirando, non solo al giusto risarcimento dei danni subiti, ma anche alla condanna dell’imputato, meglio se esemplare. E’ una posizione che, da sempre, è stata considerata ambigua e fonte di incertezze. Esponenti di primo piano della scienza giuridica processuale sono stati accaniti oppositori della presenza della parte civile nei giudizi penali. Carnelutti e Amodio, sopra tutti, a più riprese avevano messo in guardia dal pericolo che la presenza del danneggiato nel processo, come protagonista e parte, potesse alterare la rigorosa parità tra accusa e difesa che si deve realizzare innanzi a un giudice terzo e imparziale. Al punto da annotare che l’intervento della parte civile «provocherebbe uno sbilanciamento degli interessi in gioco a favore dell'accusa tale da potere compromettere la serenità del decidere, anche tenuto conto del fatto che il giudice potrebbe subire una pressione inconscia a rendere comunque giustizia alla vittima del reato costituita parte civile».

Naturalmente è una sintesi estrema e poco circostanziata che corre il rischio di riversare sul giudice il sospetto di un silente condizionamento “ambientale” a rimedio del quale il codice di procedura penale prevede, in effetti, qualche mezzo di tutela, sebbene largamente insufficiente: si pensi alla cd. remissione per legittima suspicione che può determinare la scelta di un tribunale diverso da quello previsto per legge a decidere del caso. Se non fosse che, in una società multimediale e ipercomunicativa, non esiste alcun ambiente circoscritto e al riparo da influenze esterne; non esiste un mondo davvero distante da una scena del delitto moltiplicata all’infinito negli schermi delle televisioni. L’attenzione mediatica su un caso lo rende di per sé esposto al rischio di condizionamenti e pressioni con cui la macchina giudiziaria è chiamata a fare i conti.

Il circuito mediatico

Due le questioni salienti. E’ evidente che il peso assegnato alle conclusioni del pubblico ministero – lo ha ben ricordato il professor Spangher su queste pagine – orienta pesantemente le aspettative di giustizia delle vittime dei reati. Il doloroso e inenarrabile calvario dei parenti trova un punto di approdo, un appiglio, forse anche una parziale mitigazione nelle convinzioni dell’accusa pubblica che addita un colpevole e lo esibisce, troppe volte, con voluttuosa prepotenza mediatica. Uno modo d’agire rispetto al quale, poi, non può certo criticarsi l’atteggiamento di chi, nella sofferenza, si muova in sintonia con quelle convinzioni e partecipi al giudizio nella assoluta certezza di avere alla sbarra il colpevole. Il pregiudizio che il pubblico ministero esprime sulla colpevolezza del proprio imputato è certamente un fattore ineliminabile del processo penale che si muove proprio per la verifica di una tale ipotesi. Quel che agita polemiche e innesca devianze e distonie è l’accompagnare la doverosa iniziativa processuale con un circuito mediatico che, per un verso, gratifica la bravura degli inquirenti giunti alla scoperta del “colpevole” e, per altro, addita alle vittime come concluso il percorso di ricerca della verità. Proprio quando quel percorso deve ancora iniziare innanzi al giudice.

Nessuno lo ammetterà mai, ma certo aprire le gabbie per colui che per mesi o per anni è stato indicato pubblicamente come il certo colpevole di un reato non deve essere semplice, né scontato. Soprattutto se si corre il rischio di manifestazioni e urla di protesta dentro e fuori delle aule. La questione è complessa, ma a occhio e croce si può escludere che qualche giudice inserisca nel proprio percorso curriculare una clamorosa assoluzione. In genere fanno titolo le condanne, non le assoluzioni, per la carriera delle toghe. Il secondo punto è che, in una società pur fortemente secolarizzata, materialista e anche semi- scolarizzata, ha acquistato spazio la convinzione - invero tutta ideologica - che il processo penale, come la democrazia, sia «un gioco sempre truccato, dominato da una volontà occulta che impone di ascoltare sempre la voce di alcuni e mai degli altri» e, con essa, è cresciuta la «sensazione rabbiosa di essere condannati per principio ad essere sempre dalla parte del torto» (come scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 13 gennaio).

E soprattutto quando una verità acquisita come immutabile e incontrovertibile trova l’ostacolo di una sentenza che la nega e la contraddice. Non si tratta, si badi bene, solo dei processi che vedono tante vittime innocenti, ma anche di quelli che – pompati mediaticamente – si infrangono infine sugli scranni di corti imparziali e libere. La folla di coreuti che sorregge le verità provvisorie di tanti indagini o, addirittura, di tante semplici suggestioni investigative e le alimenta irresponsabilmente additandole come i fatti oggettivi che inesplicati poteri oscuri intenderebbero negare o sovvertire non è altro che una componente di quel più vasto mondo di complottisti, terrapiattisti, ufologi e negazionisti che affollano social network e mezzi di telecomunicazione parlando di verità nascoste, occultate e negate. Quando questa «sensazione rabbiosa» di impotenza investe il processo penale e si impadronisce di vittime innocenti la tentazione di dover dare una risposta a qualunque costo bussa alla porta del giudice e ignorarla non è solo un atteggiamento morale della singola toga, ma il risultato di oggettivi accorgimenti processuali che diano al dolore nelle aule di giustizia la giusta enfasi per decidere semmai dell'entità di una pena non una condanna.