Una risoluzione della Corte di giustizia europea ha infatti sottolineato quanto poco il sistema polacco rispetti i parametri dello Stato di diritto, in particolare il suo sistema giudiziario, caratterizzato dalla mancanza di indipendenza dal potere politico, nonché dai continui abusi e dalle sistematiche violazioni del diritto di difesa per gli imputati. Concludendo che sia più che legittimo non eseguire le richieste di mandato d’arresto europeo provenienti dalla Polonia.

Non era mai capitato a un membro dell’Ue ricevere critiche di solito riservate a nazioni non democratiche da parte della stessa Bruxelles. In sostanza la giustizia polacca veiene equiparata a quella di Paesi “canaglia” o di “democrature” come la Turchia o l’Egitto.

Secondo quanto stabilito dalla Corte le autorità giudiziarie dei Paesi membri dell’Unione europea non sono tenute a rifiutare in modo automatico le richieste di Varsavia.

Ma possono tuttavia rifiutarsi di accordarlo nel caso in cui esistano motivi seri per ritenere che la persona in questione rischi di non vedersi garantito il diritto a un processo equo. Ossia a non subire l’uso coercitivo della custodia cautelare, a essere giudicata da un tribunale imparziale e non controllato dalla politica, e soprattutto a disporre di un avvocato che possa difendere i diritti dell’imputato.

In sostanza la giustizia polacca entra in conflitto con l’articolo due del Trattato di adesione all’Ue che recita testualmente: «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini».

In ogni caso questi sono i passaggi più importanti della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sul mandato di arresto comunitario. «L’esistenza di elementi sintomatici di carenze sistemiche o generalizzate concernenti l’indipendenza della giustizia in Polonia o dell’aggravamento di tali carenze non giustifica, di per sè, che le autorità giudiziarie degli altri Stati membri rifiutino di eseguire i mandati d’arresto europei emessi da un’autorità giudiziaria polacca», si legge nel testo che poi si addentra nei casi concreti.

«Tuttavia, l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso da un’autorità giudiziaria polacca dev’essere rifiutato se, alla luce della situazione individuale della persona interessata, della natura del reato contestato e del contesto fattuale dell’emissione del mandato d’arresto, esistono motivi seri e accertati per credere che, a causa di tali carenze, la suddetta persona corra un rischio reale, una volta consegnata alle autorità, che il suo diritto ad un processo equo sia violato», continua la Corte. La risoluzione approvata ieri è solamente l’ultimo capitolo di uno duro scontro in atto tra il governo conservatore del presidente Andrzej Duda e l’Unione europea, dalla gestione dei fondi comunitari ( con i veti esercitati sul Recovery Fund) al campo dei diritti, sempre più spesso calpestati da parte di Varsavia. La contestatissima legge che di fatto voleva proibire l’aborto che ha provocato un autentico sollevamento di piazza da parte dell’opposizione e delle donne polacche è stata silurata anche dall’Ue che la riteneva in aperto contrasto con i principi dell’articolo due. Se la legge è stata alla fine ritirata dall’esecutivo i contrasti rimangono tutti sul tavolo.

Uno scontro anche a livello culturale diventato così virulento che i principali media filogovernativi ( ovvero quasi tutti), non esitano più a evocare scenari estremi, come un’imminente uscita di Varsavia dall’Unione europea.

Tanto che l’espressione “Polexit” non è più una suggestione giornalistica o un un impronunciabile tabù, ma una prospettiva politica sempre più concreta.