La trattativa Stato-mafia non c’è stata. La Cassazione, considerando inammissibile il ricorso presentato dai procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, ha sigillato la sentenza di assoluzione nei confronti dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino. L’accusa nei sui confronti si rifà all’articolo 338 del codice penale, ovvero “minaccia a corpo politico dello Stato”. Quella stessa accusa che è stata fatta nei confronti degli ex ufficiali dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, così come nei confronti dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Tutti loro, attualmente, stanno celebrando il processo d’appello. Calogero Mannino, come sappiamo, è l’unico degli imputati del processo sulla Trattativa Stato-mafia ad aver scelto il rito abbreviato. Che poi, tanto breve non è stato visto che sono passati quasi 7 anni per avere una sentenza definitiva. Con la sua assoluzione definitiva, compresa quella di Nicola Mancino nel primo grado del processo ordinario, di fatto la Prima Repubblica esce fuori dalla “Trattativa”. Accade così che si ritrovano sul banco degli imputati solo i carabinieri e i condannati definitivi per mafia, a incarnare l’avvio della trattativa fra Stato e Cosa nostra, svoltasi, secondo la sentenza di condanna, fra il 1992 e il 1993, giungendo al massimo ai primissimi mesi dell’anno successivo. In sostanza, rimane solo Dell’Utri che rappresenta la Seconda Repubblica. Ma è arrivato dopo. Secondo il teorema è Mannino ad aver dato l’avvio al patto sporco. Senza di lui rimangono i Ros che avrebbero agito, quindi, senza alcun mandato politico. Chiaro che qualche problema di logica emerge con tutta chiarezza. L’accusa nei confronti di Mannino In realtà, entrambi le sentenze di assoluzione sono motivate non solo scagionando Mannino, ma anche decostruendo l’intero impianto del teorema trattativa. Perché? Basterebbe partire dall’accusa nei suoi confronti. Mannino, temendo che la mafia lo volesse morto, nei primi mesi del 1992 avrebbe cercato contatti con esponenti di apparati investigativi, affinché acquisissero informazioni da uomini collegati a Cosa nostra e si aprisse con i vertici della stessa organizzazione criminale la trattativa Stato-mafia, finalizzata a sollecitare eventuali richieste da parte di quest'ultima per far cessare la programmata attuazione della strategia omicidiario-stragista, già avviata con l'omicidio dell'onorevole Salvo Lima, e che prevedeva l'eliminazione tra gli altri di vari esponenti politici e del governo, fra cui appunto lo stesso Mannino. Non solo. È stato accusato di avere esercitato, in epoca successiva, in relazione alle richieste frattanto ricevute da Cosa nostra, indebite pressioni, col fine di condizionare a favore dei detenuti mafiosi la concreta attuazione dei decreti applicativi del 41 bis, agevolando così lo sviluppo della trattativa Stato-mafia e quindi rafforzando il proposito criminoso di Cosa nostra di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista. Chi avrebbe fatto da ponte per la trattativa? Don Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo. Su spinta di Mannino, sarebbe stato agganciato dagli ex Ros per agevolare l'instaurazione di una comunicazione con i capi del sodalizio criminale, finalizzato appunto a sollecitare loro eventuali richieste per fare cessare la strategia stragista. Decostruita la trattativa Stato-mafia Tutto chiaro, no? Nient’affatto. I giudici, assolvendo Mannino, hanno anche spiegato – con fatti e dati in mano – cosa sia in realtà accaduto. Raccontiamoli. Quando nel ’92 imperversava l’attacco stragista deliberato dai capi corleonesi di Cosa nostra, dopo che era stato consumato l’omicidio di Salvo Lima e anche la strage in cui aveva perso la vita Giovanni Falcone, il capitano De Donno e il suo superiore colonnello Mori pensarono di andarsi a rivolgersi al politico mafioso corleonese Vito Ciancimino, i cui affari e storici legami con Riina e Provenzano erano ad essi noti in ragione della loro professione. I due ufficiali proposero a Ciancimino una interlocuzione diretta alla cattura dei latitanti. Tale colloquio con Vito Ciancimino nacque da una spontanea e indipendente iniziativa dei Ros e abortì sul nascere, essendosi interrotta in uno stadio in cui si era arrivati a discutere con Ciancimino della mera ipotesi di un contatto con i capi corleonesi, e avrebbe avuto come reale finalità l’acquisizione di informazioni utili al progresso delle indagini, la cattura dei grossi latitanti, senza alcuna concessione o compromesso con l’organizzazione criminale. Tale iniziativa, in realtà, era il segreto di pulcinella. Secondo i giudici che hanno assolto Mannino, dei contatti tra i Ros e Ciancimino ne erano a conoscenza lo stesso Borsellino, la dottoressa Liliana Ferraro e anche Luciano Violante. Senza contare che nel 1993, appena se ne andò l’allora capo procuratore Pietro Giammanco, di questi contatti ne venne a conoscenza anche la Procura di Palermo. Sconfessata l’unica “prova” Ma è stata decostruita anche l’unica “prova” dell’avvenuta trattativa. Ovvero il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. La vicenda – come ha chiarito il collegio della corte d’Appello presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini – è originata dall’invio della nota del 29 ottobre, finalizzata ad aprire – dopo la sentenza della Corte costituzionale che invitava il governo a valutare il 41 bis caso per caso – un’articolata istruttoria con le autorità giudiziarie e di polizia competenti, per acquisirne i relativi pareri. Così avvenne. Nelle motivazioni di assoluzione si evidenziano diversi dati oggettivi che smentiscono la tesi basata sul fatto che l’omessa proroga dei 336 decreti applicativi del 41 bis sia stato effetto della cosiddetta trattativa. Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dall’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, il quale giustamente non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della “trattativa”, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente”. I giudici hanno anche sottolineato che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che «né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro». Arriva in soccorso il pentito Pietro Riggio In realtà, durante il processo d’appello principale, quello presieduto dal giudice Angelo Pellino, grazie al susseguirsi di varie deposizioni sono state già chiarite molte cose. A partire dalla mancata proroga del 41 bis fino ai colloqui dei Ros con Ciancimino. A ciò si aggiunge la sentenza di assoluzione nei confronti di Mannino sugellata dalla Cassazione che, di fatto, entra nel processo principale. Tutto l’impianto accusatorio sembra, appunto, franare. D’altronde a questo serve un processo: deve occuparsi di fatti, illuminando le ombre. E proprio mentre tutto sembra dipanarsi, ecco che giunge come un fulmine a ciel sereno il pentito Riggio, ex agente penitenziario diventato mafioso di rango. Con la sua testimonianza, dove fa cambiare in corso d’opera la tesi originale visto che mette in mezzo addirittura la Dia e i sevizi segreti libici, l’accusa nei confronti degli ex Ros e Dell’Utri sembrerebbe riacquistare linfa vitale. Eppure, le sue testimonianze – vere o meno – sono tutte de relato. Potranno mai avere valore, visto anche i racconti illogici che sono trasparsi fin dai primi verbali di interrogatorio? Saranno i giudici della Corte d’appello a emettere l’ardua sentenzia.