Giulio Regeni non è stato ucciso da una banda di ladri improvvisati. Con la sua morte non c’entra la droga, né la pista passionale, e di certo non si è trattato di un incidente stradale. Dopo quasi cinque anni dal ritrovamento del suo cadavere lungo la superstrada tra il Cairo e Alessandria, a febbraio del 2016, la Procura di Roma chiude le indagini e formula un quadro accusatorio: Giulio Regeni è stato rapito, tenuto prigioniero per nove giorni e seviziato fino alla morte per «insufficienza respiratoria acuta» a causa delle «lesioni di natura traumatica» provocate dalle percosse. I responsabili di un simile trattamento – si legge nell’avviso di conclusione delle indagini firmato dal procuratore Michele Prestipino e dal pm Sergio Colaiocco – sarebbero quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani che ora rischiano di andare a processo. Si tratta di Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali e omicidio. In particolare, al maggiore Sharif sono imputate le lesioni che avrebbero portato Giulio alla morte, mentre per un quinto agente, Mahmoud Najem, i pm capitolini hanno chiesto l’archiviazione.La ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Giulio, così come emerge dalla carte della procura, fa tremare i polsi. «Per motivi abietti e futili ed abusando dei loro poteri, con crudeltà», scrivono i magistrati, gli agenti «cagionavano a Giulio Regeni lesioni, che gli avrebbero impedito di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre 40 giorni» e che «hanno comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi». I quattro, «seviziandolo», hanno causato al ricercatore friulano «acute sofferenze fisiche, in più occasioni ed a distanza di più giorni: attraverso strumenti dotati di margine affilato e tagliente ed azioni con meccanismo urente, con cui gli cagionavano numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico dorsale e degli arti inferiori; attraverso ripetuti urti ad opera di mezzi contundenti ( calci o pugni e l’uso di strumenti personali di offesa, quali bastoni, mazze)». Ma non è tutto. Nel corso dell’audizione di ieri davanti alla Commissione di inchiesta sulla morte di Regeni, i pm hanno riportato le parole di uno dei cinque testimoni sentiti nell’ambito dell’indagine. «Ho visto Giulio ammanettato a terra con segni di tortura sul torace», ha raccontato l’uomo. «Ho lavorato per 15 anni nella sede della National Security dove Giulio è stato ucciso – ha spiegato il testimone. È una villa che risale ai tempi di Nasser, poi sfruttata dagli organi investigativi. Al primo piano della struttura c’è la stanza 13 dove vengono portati gli stranieri sospettati di avere tramato contro la sicurezza nazionale. Il 28 o 29 gennaio ho visto Regeni in quella stanza con ufficiali e agenti. C’erano catene di ferro con cui legavano le persone, lui era mezzo nudo e aveva sul torace segni di tortura e parlava in italiano. Delirava, era molto magro. Era sdraiato a terra con il viso riverso, ammanettato. Dietro la schiena aveva dei segni, anche se sono passati quattro anni ricordo quella scena. L’ho riconosciuto alcuni giorni dopo da foto sui giornali e ho capito che era lui». Si tratta di una testimonianza chiave, un «primo passo verso la verità». Intanto, la notifica agli 007 egiziani è avvenuta tramite «rito degli irreperibili» direttamente ai difensori di ufficio italiani non essendo mai pervenuta l’elezione di domicilio degli indagati dal Cairo. Nonostante le ripetute richieste - inevase - dei magistrati italiani agli omologhi egiziani, secondo i quali ad uccidere Regeni sarebbero stati 5 malviventi morti in un blitz. Ma per il capo della Procura di Roma, quelli raccolti nell’inchiesta sono «elementi di prova univoci e significativi» : il processo, ha aggiunto Prestipino davanti alla Commissione parlamentare, sarà «unico» e si svolgerà «in Italia». «Ci sono altri 13 soggetti nel circuito degli indagati, ma la mancata risposta ai nostri quesiti da parte delle autorità egiziane ci ha impedito di proseguire negli accertamenti», ha aggiunto il pm Colaiocco. Per la legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, quello raggiunto ieri è solo un «punto di partenza». In conferenza stampa a Montecitorio, con i genitori di Giulio Regeni, Claudio Regeni e Paola Deffendi, in videocollegamento, Ballerini è tornata a chiedere al governo di «richiamare immediatamente l’ambasciatore per consultazioni in Italia, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e bloccare la vendita di armi», perché «la giustizia non è barattabile». «Giulio è diventato uno specchio che riverbera in tutto il mondo come vengono violati i diritti umani ogni giorno in Egitto», è l’accusa della madre Paola che, come tutta la famiglia Regeni, non ha avuto più contatti con il governo dall’ottobre 2019. «Ci auspichiamo un cambio di rotta - ha detto il padre - ma questo non si intravede nei fatti». Adesso la mamma di Giulio pretende «chiarezza sulle responsabilità italiane» e, rivolgendosi alla stampa, chiede di non «cannibalizzare la figura» del figlio qualora si andasse a processo. Con la «storia della “banda dei 5 ladri” l’Egitto ci prende in giro per l’ennesima volta: è inaccettabile, adesso sappiamo com’è andata. Ora spero che arrivino nuovi testimoni e andremo avanti fino in fondo», ha assicurato, infine, il presidente della Camera, Roberto Fico, durante la conferenza stampa.