Settembre 2011. A Cosenza fa ancora un caldo infernale. A casa di Maria Giorgia Vitale, studentessa brillante con in mano una laurea in Filosofia, bussa un poliziotto in borghese. Porta in mano una busta: è un avviso di garanzia, primo atto di una fiction durata nove anni. La definisce così, ora, Maria Giorgia. Che dal processo “110 e lode” sui falsi esami all’Università della Calabria è uscita indenne. Assoluzione perché il fatto non sussiste, formula piena, dunque: non ha mai fatto nulla di male. Ma ci sono voluti quasi 10 anni, cinque di processo, fermate e ripartenze, passando per l’immancabile gogna pubblica, per poterlo dire pubblicamente. Con il suo nome finito dentro un elenco lunghissimo spalmato sui giornali e le prospettive di carriera, in un colpo solo, ridisegnate da un evento impossibile da immaginare. Quel giorno di settembre Maria Giorgia va in Questura, per la prima e unica volta in vita sua. «Mi hanno letto i capi di imputazione: errore determinato dall’altrui inganno, falso materiale e falso ideologico. Volevo sprofondare. Non ci credevo e i miei genitori erano scioccati. Io, 24 anni appena laureata, coinvolta in un’indagine da serie tv», racconta al Dubbio. E buona parte dei protagonisti di quel telefilm, trascorsi quasi due lumi, si sono rivelati innocenti. Sono infatti 20, su 60 imputati e circa un centinaio di indagati, le persone condannate. Nel frattempo, però, per tutti Maria Giorgia e i suoi colleghi sono diventati i “furbetti” dell’Unical. Quelli che hanno comprato gli esami, quelli le cui lauree sono da stracciare. Sui giornali si racconta di statini compilati ad hoc per completare il piano di studi e approdare alla seduta di laurea comodamente e senza lo sforzo di studiare. A Maria Giorgia contestano tre esami: quanto basta per annullare un percorso lungo cinque anni di studio. «Chiunque abbia vissuto l’Università sa cosa vuol dire: nottate insonni, ansia divoratrice, adrenalina e frustrazione durante gli esami affrontati. Un percorso durato 5 anni - 3 anni di triennale e 2 di specialistica - un traguardo duramente guadagnato. E alla fine? La beffa - spiega -. Avevamo circa 24- 25 anni, in mano l’attestato del conseguimento degli studi, nell’altra il futuro professionale da costruire. Cinque anni sono stati vanificati. Eravamo ricoperti di vergogna e timore di essere identificati per questo durante i colloqui di lavoro e i concorsi a cui abbiamo partecipato». Dopo l’avviso di conclusione delle indagini gli incubi aumentano. Per Maria Giorgia si tratta di giorni agghiaccianti e mortificanti. «È stato davvero un incubo. Mi sentivo osservata e giudicata da tutti. Mi davano della colpevole senza sapere cosa fosse realmente accaduto». La gogna è stata inesorabile. Accompagnata da sguardi giudicanti e messaggi sui social network, con i dati sensibili alla mercé di tutti: nome e cognome, data e luogo di nascita. «Tutti o quasi hanno dato per assunto la colpevolezza, senza se e senza ma. La presunzione di innocenza non è stata mai contemplata - racconta -. Il chiacchiericcio brulicante che si è creato intorno a questa storia è stato insopportabile. Soffocante. Mortificante. Avvilente».

L’inchiesta nasce dalla denuncia di un professore, che durante una seduta di laurea non riconosce una firma sullo statino come propria e fa partire le indagini. Gli inquirenti mettono mano ai documenti di tutti i laureandi e laureati degli ultimi anni. Alcuni statini risultano già a prima vista falsi. Ma si tratta di una minima parte di quelli portati a processo, tra i quali anche quello di Maria Giorgia. «La cosa assurda è che in realtà per la maggior parte di noi, ben oltre la metà degli indagati, gli statini “falsi” erano stati messi lì solo come promemoria degli esami sostenuti, in quanto quelli veri erano andati in parte smarriti, o almeno questa è l’idea che ci siamo fatti, perché molti statini “originali” sono stati rinvenuti prima che arrivassimo a dibattimento, ritrovati in uno scantinato dell’Unical», spiega. Ma questo non basta alla Procura per stralciare la posizione di chi, come Maria Giorgia, non ha fatto nulla di male. Lei e gli altri studenti oggi riconosciuti innocenti finiscono comunque a giudizio. Si ritrovano in aula, davanti a giudice e pm, a spiegare come sono andate le cose, a raccontare delle firme, dell’esame, di particolari da ripescare nel passato. «Mi si contestava la veridicità di soli tre esami. Fortunatamente, di uno è stato ritrovato lo statino originale. Per un altro la stessa professoressa, chiamata a testimoniare, si è ricordata di me e del mio esame sostenuto. Per il terzo, è stato più complicato perché il professore non era mai reperibile». Dopo cinque lunghi anni il processo finisce. Il giudice pronuncia la formula d’assoluzione e per Maria Giorgia quel peso portato a lungo sul petto si scioglie. Ma nel frattempo deve cambiare tutto. Rinuncia a diventare ricercatrice. Rinuncia anche all’idea di insegnare. E non c’è verso di fare un concorso pubblico: il carico pendente è lì a ricordare che porta una lettera scarlatta addosso. L’unica strada è cercare una vita alternativa. Grazie ad un’amica esperta di web marketing Maria Giorgia inizia a “ripulire” il suo nome sul web, che cercato in rete restituisce sempre la notizia di quell’indagine. E alla fine, dopo un master in comunicazione, comincia a lavorare col web marketing anche lei. La laurea in Filosofia rimane un ricordo sullo sfondo. «Nel momento in cui avrei dovuto iniziare la mia carriera professionale e guadagnare mi sono ritrovata a lottare per dimostrare la mia innocenza. Assurdo, no? - conclude -. Ad oggi, nessuno mi ha chiesto scusa. Le scuse le vorrei principalmente da chi ha favorito la mia gogna mediatica dipingendomi come colpevole quando ancora ero indagata e, di conseguenza, da tutti coloro che, alludendo al mio coinvolgimento in questa vicenda, mi hanno giudicata aspramente e ingiustamente».