“Dalla parte sbagliata si muore”. Solo che la canzone di Francesco De Gregori, “Il cuoco di Salò”, parla di fascisti, di repubblichini. Adesso che Nino Di Matteo ritenga la parte opposta alla sua sbagliata quanto le brigate nere dopo l’ 8 settembre, è francamente esagerato. Sorprende che Di Matteo espliciti, come ha fatto ieri a un convegno organizzato dalla Camera penale di Palermo, un’idea finora apparsa solo sottintesa, tra le righe di sue precedenti dichiarazioni. L’idea cioè che l’avvocatura sia, generalmente, un nemico, addirittura un «ariete» schierato appunto «dalla parte sbagliata», contro quelli da lui definiti «i magistrati liberi e intelligenti». Tra l’altro ne parla a proposito delle toghe, come quelle coinvolte nel caso Procure, intente a tramare con «parti importanti delle istituzioni» per «sbarrare la strada a chi veniva considerato cane sciolto», cioè «quei magistrati considerati non controllabili».

A parte il fatto che non è chiaro né a quali trame ci si riferisca né cosa c’entri la classe forense. Ma il togato Di Matteo si è accorto o no che quando gip come il povero Vinicio Cantarini di Rimini sono stati quasi linciati per aver osato firmare ordinanze cautelari in dissenso dalla curva forcaiola, i soli a difenderli sono stati gli avvocati ( e il loro giornale, ossia il Dubbio)? E sempre il consigliere Di Matteo ha dato uno sguardo alle parole pronunciate nell’ultimo lustro, innanzitutto dal presidente Andrea Mascherin, a ogni inaugurazione dell’ano giudiziario del Cnf, riguardo la riforma dell’avvocato in Costituzione, proposta come scudo da assicurare ai magistrati contro i tentativi della politica di insidiarne l’indipendenza? Vogliamo per caso ricordare, consigliere Di Matteo, che a disegnare l’ordinamento della giustizia italiana per come lo conosciamo ( organo di governo autonomo a maggioranza togata, indipendenza assoluta del pubblico ministero) è stato un avvocato, Piero Calamandrei?

Ma comunque sarebbe ingiusto replicare a Di Matteo senza ricordare che, come spesso gli capita, anche al convegno dei penalisti palermitani di ieri ne ha avute per tutti, non solo per gli avvocati. Il primo della lista in fondo resta Alfonso Bonafede. Di Matteo ha di nuovo silurato la riforma del Csm, che secondo lui ha «più ombre che luci». Non ha risparmiato i colleghi, soprattutto chi ha assunto la stessa carica da lui oggi ricoperta di consigliere superiore: «Ho già detto che il metodo dell’appartenenza, privilegiato nelle scelte sulla carriera di un magistrato, è un metodo, nelle logiche, dell’agire mafioso: lo dico e lo confermo». Poi però ci piacerebbe rilevare che sempre da lui, il pm antimafia, il titolare dell’indagine sulla trattativa, si è ascoltata ieri una delle più lucide analisi sulla crisi della magistratura: «Temo che stia cambiando il dna dei giovani magistrati: prima noi ci accapigliavamo per avere l’assegnazione del processo ritenuto più interessante o potenzialmente più rischioso, oggi la gerarchizzazione degli uffici ha favorito quella ricerca delle cosiddette medagliette, degli incarichi che servono a poter dire, quando si aspira a un direttivo, “ho già coordinato un gruppo” o “ho collaborato con il dirigente dell’ufficio”. Così si crea figura di un magistrato che piuttosto che fare giustizia vuole ottenere la gratitudine del proprio dirigente». Ecco, con magistrati liberi e intelligenti come Di Matteo si potrà essere in disaccordo su molte cose, ma mai schierarsi «contro» come in una guerra.