L’idea che la democrazia abbia un costo era ben nota a Luigi Einaudi cui si deve la previsione dell’art. 81 della Costituzione, che impone che “ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte”.

Un altro costituente liberale, Epicarmo Corbino, si impegnò a inserire nell’art. 33 della nostra Legge Fondamentale il comma che assicura che “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”.

Il liberalismo italiano del Dopoguerra era erede diretto della Destra risorgimentale di Quintino Sella, Ricasoli e Menghetti che consentì al neonato Stato Unitario di consolidarsi patrimonialmente e ne fu degno continuatore, tanto che la Lira si rivalutò in pochi anni, ponendo le premesse del “miracolo economico” degli Anni 60.

Nessuno però degli austeri liberali ebbe niente da eccepire in merito al costo del Parlamento, che fu visto concordemente dai Padri Costituenti come il baluardo contro ogni dittatura; del resto era ancora viva l’eco del plumbeo discorso mussoliniano che aveva prospettato di trasformare l’aula “sorda e grigia “ di Montecitorio in un “bivacco di manipoli”.

Fa specie che a distanza di un secolo le più volgari frasi della demagogia fascista contro i “ludi cartacei” elettorali e l’inettitudine del Parlamento siano tornate di moda e che gli emicicli siano stati occupati non da squadracce minacciose ma da dilettanti allo sbaraglio, al grido sanculotto “uno vale uno”.

Dietro l’antipatia per la democrazia rappresentativa non c’è solo il pensiero utopico di Rousseau, ma quello molto più portato all’azione di Georges Sorel, il vero ispiratore di Mussolini.

Sorel creò il mito dell’azione, dei “fatti, non parole”, dell’agire come principio assoluto, contrapposto al metodo dialettico e alla riflessione teorica, considerata ciarpame da gettare nell’immondizia, in nome di un secolo nuovo, veloce e tecnologico.

Sembra il terzo millennio, ma era il 1920. Su quest’onda isterica di esaltazione dell’azione diretta delle masse e dell’individuo protagonista senza estenuanti mediazioni e inutili conciliaboli, arrivò l’impresa dannunziana di Fiume, come schiaffo al parlamentarismo liberale di Giolitti e poi, come diretta conseguenza, la Marcia su Roma , salutata anche da qualche miope esponente della classe dirigente di allora come una salutare scossa all’immobilismo.

Da lì in poi il Parlamento passò di moda: si fece sì, con la Legge Acerbo, di farne semplicemente la cassa di risonanza del governo e poi, una volta che questo divenne Regime, si pensò bene di risparmiare eliminando i deputati eletti, con i designati dalle strutture di Partito ( I fasci) e dalla categorie produttive ( le corporazioni). In questo modo, secondo la pubblicistica fascista, si risparmiavano tempo e soldi che le “demo- masso- pluto- democrazie” sprecavano in inutili elezioni tra partitucoli e listarelle, garantendo la partecipazione effettiva del popolo all’emanazione delle leggi che venivano scritte dai tecnici del settore e approvate in modo unitario dall’assemblea popolare espressione genuina della gente e non delle fazioni.

Non stupisce che simili argomentazioni facciano ancora breccia in tradizioni politiche che direttamente o indirettamente si richiamano all’autoritarismo o che si basano sull’avversione al Parlamento in nome di una fantomatica “democrazia diretta”.

Stupisce invece che le forze che si richiamano al liberalismo, come Forza Italia o che si proclamano continuatrici della sinistra italiana e della democrazia cristiana quali il Pd, si siano accodate in modo avventato al carro folle del “taglio del Parlamento”.

Una volta passato il concetto che il parlamentare non è una risorsa ma una spesa, sarà evidente pensare che anche 400 deputati sono troppi e che il Senato, oltre tutto copia carbone della Camera, è un lusso insostenibile.

In effetti ne abbiamo fatto a meno per una ventina d’anni e qualcosa abbiamo risparmiato; in compenso abbiamo avuto le Leggi Razziali e una guerra che ci è costata molto di più che quelle centinaia di morti per sedersi al tavolo della pace che immaginava il Duce dichiarando la guerra affacciandosi a Palazzo Venezia, senza il fastidio di dover passare da Montecitorio.

Mi sembrano motivi sufficienti per votare NO, che ne dite?