Il contagio, il vaccino e il governo in tempi di incertezza: cose da fare e cose da non fare alla luce dei fatti. Abbiamo capito. La curva ha ripreso a salire, di poco, ma lo ha fatto. In verità ci sono Paesi dove non ha mai smesso di farlo. Che il Covid avesse messo a nudo la interdipendenza delle condizioni di vita e soprattutto delle prospettive di sviluppo di persone e società che vivono in spazi diversi del pianeta è evidente. Cosi come è cosa nota che siamo accomunati da un destino i cui riflessi di dispiegano e si riverberano attraverso le generazioni.

Questo abbiamo capito. Ciò che meno sembra sia diventato patrimonio di comune consapevolezza è cosa, una volta squarciato il cielo e quel re che è il governo in condizioni di incertezza messo a nudo, si deve e cosa non si può proprio fare.

Le giornate agostane sono state in tal senso un paradosso e una vetrina, come se il ventaglio delle opzioni di strategia politica che dovrebbero essere non solo deplorate dai media ma evitate accuratamente da chi prende le decisioni, sia stato messo sul piatto. A noi adesso svolgere rispetto a quelle opzioni un sano esercizio di pensiero critico. Cominciamo dai numeri e dal dispositivo del governo del rischio del contagio. Se c’è un aspetto che l’esperienza del lockdown ha messo in rilievo in modo trasversale alle posizioni politiche, è il nesso che intercorre fra scienza e politica, quando le decisioni come quelle di confinamento, sono prese sulla base di un ragionamento legittimante che invece di nascere in una arena di dialettica rappresentativa squisitamente politica, nasce in una arena di carattere tecnico, o almeno prevalentemente tecnocratico.

Ci hanno spiegato che se l’indice di contagio non fosse aumentato cosi rapidamente e non si fosse mantenuto stizzosamente vicino o sopra al livello limite, non avrebbe avuto alcun senso confinare, chiudere, vincolare, comprimere l’esercizio delle libertà individuali.

Dunque l’indice di contagio è il relais che apre o chiude i mondi possibili del governo del rischio? Potremmo anche accettarlo; certo, detta così si tratta di sottrarre al confronto maggioranza- opposizione le decisioni che attengono al governo del rischio sanitario, ma non è detto che questo sia necessariamente sbagliato, posto però – e su questo non dovremmo essere in alcun modo disposti a derogare – che sia chiaro ex ante e con lapidaria espressione quale sia la regola: una cosa del tipo se l’indice di contagio è “x” si opera nei modi “y” e “z”, mettendo in piedi una strategia di contrasto che trova nella sua dimensione di predittività non tanto degli esiti ma dei metodi, una base certa e legittimante del governare in condizioni di oggettiva incertezza. Trasformare l’arena del contrasto al rischio di aumento contagio ossia l’arena del governare il rischio sanitario in una arena competitiva è non solo deplorevole, ma assai pericoloso, poiché la strada intrapresa finisce per prestare il fianco ad una perplessità da parte dei cittadini. Insomma, non possiamo fare della determinazione del livello di rischio che fa scattare il relais una issue di politica distributiva o redistributiva di quote di potere. Sarebbe inacettabile agli occhi della società.

Interpretare – e si badi non si sta dicendo che lo si faccia in modo intenzionale – l’arena Covid come una arena competitiva fra centro e territori ovvero fra territori diversi è quanto di meno utile e di più delegittimante al Paese si possa fare, e l’effetto di delegittimazione si riflette non tanto su quel politico o quell’amministratore locale, quanto sullo strumento utilizzato per decidere, ossia appunto il nostro famoso indice di contagio, il relais fra il mondo confinato e quello non confinato. Dall’inizio di agosto le decisione e le promesse di decisioni in materia di chiusura apertura di locali, come le discoteche, di chiusura ovvero apertura di spiagge, scuole, asili, le condizioni di distanziamento ovvero di utilizzo di mascherine di protezione dentro, oppore fuori o sud condizione che non vi sia il distanziamento, si sono susseguite come si susseguono le onde del mare.

E qui viene l’altra arena che sempre con le stesse, fastidiose logiche competitive, appare in questi giorni. Lo sapevamo già che il vaccino avrebbe messo – anzi aveva messo – in evidenza dinamiche di competizione agguerrita che la realpolitik definirebbe di geopolitica. Non si tratta solo della competizione sul piano del mercato farmaceutico: vi è molto di più. La gestione della emergenza pandemica ha fatto emergere potenziali di regulative competition che suonano inaccettabili. Il nostro Paese ad un certo punto si dovrà confrontare con la attuazione della somministrazione del vaccino. Sarebbe quanto mai benvenuto che la strategia sia discussa oggi, non domani all’alba della validazione del vaccino da parte delle istituzioni competenti, ma oggi, proprio oggi, quando di nuovo, dopo alcune pochissime settimane di minore tensione, siamo in una babele mediatica nella quale il bisogno fortissimo che emerge, da parte di chi chiede una funzione di governance presente è: diteci non cosa ci aspetta nell’autunno, questo lo abbiamo capito, non lo sappiamo ancora bene, ma cosa vi aspettate di fare e cosa vi aspettare che i cittadini facciano.

Diciamolo ora, che metodo, quali condizioni, quali strategie: confinamenti localizzati, farmaci ad ampio spettro di diffusione ed uso, somministrazione dei vaccini a quali fasce della popolazione e perché. Se il futuro non è prevedibile - ma quando mai lo è stato che sia predeterminato il metodo per fare fronte ai rischi che esso porta.