Sono ormai mesi che ci misuriamo, in modo più o meno consapevole, più o meno condiviso e chiaramente articolato, con un grande dilemma: quali sono gli strumenti che ci permettono di rendere prevedibile, ovvero determinabile, e quindi, anche, governabile in modo lineare, il comportamento sociale?

Per quanto un diffuso e serpeggiante understatement emerso nel crollo delle grandi teorie – non delle grandi ideologie – sul funzionamento delle nostre società ci abbia accompagnato e ci abbia incoraggiati ad aderire ad un rassicurante evitamento delle grandi domande – “tanto, poi, non si trovano le risposte e quando le si trovano sono già oggetto di discussione e giammai di consenso, dunque inutili per prendere decisioni collettive” – questo pensiero minimo oggi ci aiuta assai poco.

La realtà dei fatti ci ha sbattuto in faccia, con una violenza inedita, dapprima la questione del “Cigno nero”, poi la questione di come originare, di colpo nell’arco temporale di qualche giorno, un nomos sociale tutto nuovo, sospendendo e disapplicando i dispositivi di regolazione sociale cui eravamo abituati nel gestire le nostre vite quotidiane, gettandoci nello spaesamento di un mondo di regole artefatte, cogenti e strutturanti ( cosi ci è parso, vedendoci camminare per strada, pochi e distanziati, vedendoci cedere il passo per non incrociarci nello spazio pubblico) per poi costringerci a cimentarci di nuovo con la questione dei limiti dello strumento del diritto positivo nell’orientare, no, anzi nel determinare, i comportamenti individuali.

Ben venga dunque la presentazione al pubblico della traduzione del volume di Christian List, Why Free Will is Real, avvenuta qualche giorno fa sulla Lettura. Ben venga perché con la categoria del free will ci portiamo dietro moltissime conseguenze che pesano come macigni e che al contempo ci costringono ad interrogarci su uno strumento, quello cardine della società moderna e democratica, con cui siamo propensi a regolare i comportamenti individuali: ossia lo strumento del diritto positivo.

Poniamoci alcune domane a mò di esempèio. I cittadini italiani hanno seguito le regole del confinamento perché prevedevano le sanzioni previste dai Dpcm che si sono susseguiti, perché percepivano nel loro campo visivo quotidiano i segni palesi del controllo pubblico esercitato dalle forze dell’ordine – e quindi ne prevedevano in modo certo il potere sanzionatorio – o perché sulla base di informazioni e di valori interiorizzati hanno aderito ad una prospettiva di tutela collettiva?

Ancora: le vicende che hanno messo al centro del dibattito istituzionale la questione del rapporto fra magistratura e politica si leggono, interpretano ed esplicano nei termini di “non sufficientemente cogenti interazioni” fra le strategie individuali e le norme disciplinari, ovvero le loro applicazioni, oppure abbiamo bisogno di categorie che ci aiutino a rimettere al centro la autonomia del giudizio e, quindi, quell’insieme di norme e di valori che non sono pos( i) te nelle leggi e nelle regolazioni, ma che attengono alla integrità?

Sulla stessa falsariga: la recentissima vicenda dell’utilizzo distorto dei bonus ci parla di un comportamento che avrebbe dovuto essere prevenuto – ossia impedito – dalle norme che regolano l’erogazione dei bonus oppure di un self- restraint che sia interiorizzato dalle persone che svolgono funzioni pubbliche?

Sarebbe troppo facile liquidare questi interrogativi come divertissement estivi di una vagante immaginazione filosofica, che forse puo’ dare soddisfazione ad alcuni studiosi di eccellenza, come List, ma che poco ci aiuta nel governo e nella prospettazione della società di domani.

Troppo facile: e quando le cose sono troppo facili, forse non sono correttamente impostate. Più adeguato ci pare sia tempo interrogarci su cosa siamo intenzionati a chiedere allo strumento del diritto positivo – sottraendolo così allo spazio della autonomia del giudizio e dell’azione regolati da meccanismi self restraining di integrità e diciamolo dalla dimensione sociale della legalità, proprio nel momento in cui la questione della disciplina e della coniugazione di comportamenti individuali con l’integrità pubblica ci appare uno dei grandi temi su cui investire per il futuro.

Solo un difetto visivo che non ci possiamo concedere giustificherebbe dunque il passare a coté del procotollo recentemente sottoscritto dal Consiglio Nazionale Forense con il Ministero dell’Istruzione sul tema della cultura della legalità. Se si colgono nelle recenti esperienze fatte sul territorio italiano dagli Ordini forensi, in partenariato con le scuole, le radici di un modo di vedere la legalità nella sua dimensione sociale, che si nutre di un uso corretto delle parole per definire correttamente i comportamenti, dell’uso della prassi apprese in un percorso corale, come comportamenti che si rinforzano anche attraverso i meccanismi di controllo orizzontale – e non solo quelli verticali – come apprendimento di un diritto che ha le sue radici innanzitutto nella mente delle persone, prima che nei testi di legge, forse potremmo concederci un cauto, ma non freddo, positivo sentire, che vede nel diritto positivo una delle dimensioni della legalità, la quale sarebbe però incardinata nel senso dell’equità e della reciprocità, promosse attraverso due strumenti sui quali il Paese deve investire in modo sistematico: formazione e professionalità, interiorizzate, vissute, praticate dalle persone, governati e governanti. E deve farlo ora.