Tutti i nodi, prima o poi, vengono al pettine. E non è detto che, quando questo avviene, ci sia qualcuno o qualcosa in grado di scioglierli. La metafora si addice alla politica di questi ultimi tempi. Prendiamo la sinistra. Ingolfata in una compagine governativa nata, un anno fa, dalla mossa del cavallo di Matteo Renzi tesa ad allontanare da Palazzo Chigi la Lega e Salvini, non può far altro che accovacciarsi ai piedi del premier Conte, la cui popolarità da sondaggi non sembra sia stata intaccata né dalla pandemia né dalla spregiudicatezza con cui il capo del governo ha maramaldeggiato con la Costituzione a colpi di Dpcm. Una sinistra servente, dunque. Fino a quando potrà perseverare in questo stato di agnosticismo e di anomia? Il rischio di trovarsi, dalla sera alla mattina, con le pive nel sacco e un Conte intraprendente nel ritagliarsi una centralità elettorale, e non più soltanto come equilibratore di istanze spesso distanti tra Pd e Cinquestelle, comincia ad essere molto più concreto di quanto si immagini, o lo lascino intendere le smentite dell’autoproclamatosi «avvocato del popolo». Né le cose vanno meglio tra gli orfani di Grillo. L’assenza del Capo si fa sentire eccome. Le sue uscite, dopo le mirabolanti radunate del VaffaDay, ormai si misurano col contagocce. Il feeling con la Casaleggio associati sembra un lontano ricordo. E i conflitti, con la valanga di espulsioni che incendiano il Movimento, le ridicole gaffe di un ceto politico improvvisato e impreparato, il quotidiano emergere delle contraddizioni nei comportamenti e nelle decisioni con il mantra dell’onestà- onestà, dell’uno vale uno, dell’apriremo il Parlamento come una scatola di sardine, insomma tutto l’armamentario che, sembra un secolo fa, aveva portato i Cinquestelle, in un’Italia imbufalita contro la Casta della politica, a diventare il partito più votato, è ormai finito in soffitta. I sondaggi vanno a picco. E alle porte ci sono le elezioni di Roma e Torino, dove le “sindachesse” Appendino e Raggi hanno visto offuscare le loro stelle.

I nodi vengono al pettine anche nel centrodestra. L’alleanza tra Lega, Fi e FdI si è finora retta sotto il profilo elettorale. Dietro l’unità, più apparente che reale, si celano però non pochi problemi. I tre partiti sono molto diversi tra loro. Per storia, tradizione e contenuti programmatici. In Europa i posizionamenti e le alleanze sono distinte e distanti. Come lo è il modo stesso di intendere l’Unione Europea, tra sovranisti ed europeisti. Le conseguenze economiche e sociali indotte dal Coviod- 19 hanno cambiato verso alle politiche europee. L’austerità sembra ormai cedere il passo a politiche più solidali, anche se non meno rigorose. Il Recovery fund, per come è stato caldeggiato e presentato, è diventato la panacea di tutti i mali. Sappiamo che non sarà così: che se non verranno adottate le riforme richieste dall’Europa, i finanziamenti li vedremo con il binocolo. Ma, proprio sulle riforme, le distanze appaiono abissali. La partita è aperta. A sinistra come nel centrodestra. Se tutto ruoterà intorno alla direzione che prenderanno le risorse, è indubbio che sul Mezzogiorno, in particolare, si aprirà un capitolo importante. Un quarto almeno dei fondi disponibili dovranno servire a ridurre il divario infrastrutturale tra Nord e Sud. Più dell’Europa, ce lo chiedono i fatti. L’impoverimento del Paese, accentuato dalla pandemia, ha allargato quel divario. Il cosiddetto federalismo incardinato nel regionalismo spinto, santificato dalla modifica del titolo V della Costituzione, è fallito. La crisi del sistema sanitario, spezzettato nei mille rivoli delle autonomie regionali, è balzato in evidenza proprio con l’emergenza del virus. Il sovrapporsi di competenze tra Stato e Regioni ha mostrato la fragilità di un impianto nato dalla illusione di disinnescare il pericolo secessionista della Lega Nord, trasferendo risorse e funzioni gestionali alle regioni in materie che, per la loro portata, richiedono un riferimento unitario e nazionale. Non a caso Sanità e Turismo sono, allo stato, i settori più in crisi. Ci vorrebbe il coraggio di prendere atto di tale fallimento e cancellare una riforma che ha procurato danni enormi al Paese. Ma chi avrà questo coraggio? Nessuno, temiamo. Neppure chi, a destra dovrebbe rammentare la lezione dei vecchi filosofi del diritto e dei giuristi più avveduti sulla centralità dello Stato e sulla identità della Patria, la cui indivisibilità è sacra. Scambiare l’autonomia rafforzata, invocata dal leghista Zaia, con il presidenzialismo evocato dalla Meloni, ha il sapore di un do ut des giocato sul piano elettorale. Il nodo non si scioglie, dunque. E la matassa si ingarbuglia.