Il 26 febbraio 1861 il Senato discusse l’articolo unico del disegno di legge che proclamava Vittorio Emanuele II “Re d’Italia”. Cavour intervenne per sostenere la formula “Re d’Italia” anziché “Re degli Italiani” pure prospettata. Rilevò che, in buona sostanza, l’iniziativa non era stata né del Governo né del Parlamento, ma del popolo che aveva già salutato Vittorio Emanuele II come Sovrano. Qui però non interessano le ragioni, storicamente ineccepibili, addotte da Cavour a sostegno della formula caldeggiata, poi accolta unanimemente dai senatori.

Interessa invece la “brevissima digressione nel campo della politica” che egli sentì di dover premettere a quelle ragioni. E interessa perché non solo acuta ma pure strettamente attuale. Essa getta una luce inaspettata sul modo di condursi del Governo in carica. D’altro canto, esaminare un esecutivo di oggi con gli occhiali cavouriani costituisce di per sé un esercizio istruttivo, per gli esaminatori e per gli esaminati. Cavour spiegò dunque ai senatori che «vi sono due sistemi che un governo illuminato, liberale, desideroso di rimanere in armonia col popolo, può seguire: o aspettare che l’opinione pubblica si manifesti e che dopo essersi manifestata eserciti sopra il governo una certa pressione per spingerlo più in un senso che in un altro, per mostrargli la via che ha da seguire; oppure cercare d’indovinare gl’istinti della Nazione, determinar quali siano i veri suoi bisogni, ed in certo modo, spingere lui stesso; essere, in una parola, o rimorchiato, ovvero rimorchiatore».

Quel Gigante era ben consapevole che «i due sistemi possono essere opportuni nelle diverse circostanze».

Tuttavia non si trattenne dal proclamare orgogliosamente: «Io non istituirò paragoni tra l’uno e l’altro, non ne discuterò i meriti rispettivi; dirò solo al Senato che dacché ho l’onore di far parte del Consiglio della Corona, ho sempre creduto dover seguire il secondo; e mi pare che gli eventi abbiano dato ragione a questa mia scelta». Negli ultimi tempi una larga ma dissennata corrente d’opinione, riflessa dai media e comprovata da sondaggi, ha magnificato il presidente Conte e l’ha seriamente accostato a Cavour, proponendolo all’evidenza come un “rimorchiatore” piuttosto che un “rimorchiato”.

L’abbaglio deriva dal fatto che gli viene ascritto a sommo merito politico aver imposto agl’Italiani misure drastiche dettate invece dal terrore della pandemia e aver ottenuto dall’Europa elargizioni a fondo perduto ( perduto?) e mutui a lungo termine, promettendo soltanto gl’interventi richiesti dall’Europa come contropartita e imposti dallo stato di necessità della rinascita italiana.

Infatti di ritorno da Bruxelles il presidente Conte, sebbene vi avesse deposto la baldanzosa sicurezza del “Faremo da soli!”, è stato salutato come i generali romani dopo le conquiste.

Ma non ha riportato in Patria un tesoro strappato al nemico vinto, bensì sovvenzioni e prestiti concessi dai vincitori.

Il trionfo spetta alla mammina tedesca che gli ha messo in mano il sonaglio per rabbonirlo. La rimorchiatrice è Merkel; Conte, il rimorchiato. Non il Governo italiano ha trascinato l’Europa, come ha preteso la retorica patriottarda. Viceversa l’Italia è stata soccorsa perché gl’interessi della Germania, e dunque dell’Ue, non potevano essere conseguiti che perseguendo anche gl’interessi italiani. Il governo segue al solito gli eventi e ne aspetta le pressioni e le spinte. Il rimorchiato Conte, stordito dall’incenso dei suoi turiferari, finisce col sentirsi un rimorchiatore.