Nella settimana forse più difficile per il governo Conte che sulla vicenda Autostrade rischia l’osso del collo; con alle spalle le polemiche sullo stato d’emergenza e davanti il Consiglio europeo di venerdì che deve decidere sul Recovery Fund, cioè il futuro dell’Italia o giù di lì, vien voglia di chiedere (per il sottoscritto, una voglia incontenibile) a Giuliano Amato di mettere l’orecchio a terra alla moda dei pellirosse nei film western di quando eravamo bambini, e chiedere cosa sente battere nel cuore profondo del Paese, quale sentimento alligna negli italiani: se prevale la rabbia, la paura, la speranza. «E’ una buona domanda e me lo stavo chiedendo io stesso», risponde il due volte ex premier e oggi giudice costituzionale. «Vede, a mio avviso la questione è questa. Noi abbiamo nell’agone politico atteggiamenti che continuano a riflettere una animosa e assai forte ostilità reciproca. Nonostante l’occasione fornita dall’epidemia di comportamenti ispirati all’interesse della collettività alle prese con una sfida mai finora provata, le parti politiche sembra che proprio non riescano ad assumere comportamenti coerenti con l’esigenza di unità». Una demonizzazione l’un verso l’altro che ha poco di razionale e molto di viscerale... «Quando ne parliamo, il mio vecchio amico don Vincenzo Paglia commenta così: “E’ vero, dicono tutti che siamo sulla stessa barca, ma ci siamo per darci i remi in testa!”. Non proprio le parole che uno si aspetterebbe da un arcivescovo... Però è un commento corretto». E al fondo di questo quasi voluttuoso randellamento, presidente, cosa c’è? «Non possiamo non dire che questa reciproca e insistita ostilità che presuppone un non reciproco riconoscimento, riflette certo fratture vecchie e fratture nuove che si sono prodotte nella nostra società. Ma col passare del tempo rispetto a quando queste fratture si sono aperte e manifestate ciò che mi chiedo se non altro l’intensità di questo darsi i remi in testa non rifletta una modalità comportamentale che è interna al ceto politico corrispondente a malanimo che soprattutto nella Rete si manifestano, ma forse non il maggioritario e profondo sentimento degli italiani che potrebbero a questo punto avvertire il fortissimo bisogno di un ceto politico che sia più ispirato al bene comune che non a questo continuo malmenarsi proprio con quei remi che dovrebbero al contrario servire per procedere vogando nella medesima direzione». Litigando si affonda tutti insieme: è questo che sta dicendo, presidente? «Ho fatto mia non a caso la metafora di monsignor Paglia. Mi spiego. Tre anni fa, un grande sociologo spagnolo a me coetaneo: Victor Perez Diaz, fece ricerca che poi si tradusse in più scritti ed un libro sul rapporto tra la società civile spagnola e la politica, nella quale metteva in evidenza che nonostante la forza che stavano manifestando i due nuovi partiti che esprimevano il populismo “anti” - che poi erano Podemos da una parte e Ciudadanos dall’altra e che effettivamente ridimensionavano le forze politiche tradizionali - a domanda risponde: “La stragrande maggioranza degli spagnoli esprimeva come critica maggiore alla politica quella di non sapere trovare accordi sulle cose fondamentali da fare per il Paese”. Questo accadeva nel 2017. Io rimasi sorpreso da questa ricerca. Che tuttavia anticipava una evoluzione politica che la Spagna ha finito per avere, con un ridimensionamento se non dei partiti nuovi senz’altro della loro foga “nati”, e con certo un governo di minoranza e partiti tradizionali sempre in posizione minoritaria, ma con un consenso popolare che appare superiore a quello che esiste tra le forze di maggioranza e minoranza. Riflettendo su quella analisi, mi chiedo se gli italiani non comincino ad essere stanchi di un teatro politico che somiglia a quello dei burattini che a Roma si svolge al Gianicolo, dove c’è sempre una marionetta che picchia col bastone in testa ad un altro. Il cui principale messaggio è che l’altro sbaglia; che l’altro non sa fare nulla. Uno scenario di lite e non di costruzione di piattaforme condivise». Presidente, quel è la maledizione che ci costringe al teatrino “bastonatorio” che lei descrive? «E’ una giusta domanda. Dobbiamo tornare molto indietro. L’Italia ha sempre avuto un problema del genere. Quando celebrammo il 150esimo dell’Unità d’Italia , ritornò in voga l’ode di Manzoni Marzo 1821: Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor. Diciamo che in quel modo Manzoni davvero gettava l’anima oltre l’ostacolo perché ad essere realisti non nel marzo del 1821 ma nel ’61 era una d’altare se va bene, ma certo non di lingua, non di memoria, non di sangue o di cor. L’Unità d’Italia, l’unità degli italiani è sempre stato un fine da perseguire più che un risultato già acquisito. Nacque il Regno d’Italia e dovendo avere la Capitale a Roma già per questo nel giro di dieci anni arriva una frattura che riguardava la religione maggioritaria degli italiani, più pronti a seguire il parroco che non l’autorità politica. Per non parlare del Mezzogiorno col brigantaggio. E poi buona parte di quelli che avevano contribuito a realizzarla cominciarono a parlare di un’altra Italia: i giudizi di Mazzini, di Garibaldi, di Carducci che si scagliava contro i “brutti” francobolli, le brutte divise, eccetera. L’Italia nasce, vive e contiene in sé ciò che in linguaggio moderno definiamo “una coesione sociale incompiuta”. E così arriviamo al punto odierno, al proseguimento del randellamento reciproco e alle sue conseguenze. «Il punto è che, per limitarci agli anni di vita della nostra Repubblica, noi abbiamo avuto una leadership politica che si è posta come problema principale quella di suturare quelle fratture. Da De Gasperi a Togliatti a Nenni a Moro, abbiamo una sequenza di scelte politiche tutte consapevoli del fatto che c’è una frattura, che ciascuno di loro rappresenta una parte ma lavora perché ci sia una ricomposizione del tutto. Lo fa perfino Togliatti che rappresenta l’alternativa di sistema votando l’articolo 7 della Costituzione perché non vuole rappresentare soltanto una parte del Paese. E’ l’idea di Partito della Nazione che vuole percorrere un futuro che non concerne solo il pezzo d’Italia che rappresenta. Pensando a chi mi fu tanto amico, cito un libretto non tra i più noti di Antonio Ghirelli che racconta il lavoro di Nenni e Moro che insieme cercano di rafforzare le radici di una democrazia fragile, percependo che l’aver messo insieme i lembi del centro con quelli della Sinistra attraverso i socialisti è un passo che serve a rinsaldare l’unità degli italiani. E quindi entrambi sacrificano obiettivi a cui ambiscono, al valore dello stare insieme. dando così più forza ad una democrazia che cresce grazie a loro. Questa resterà sempre la ragione della grandezza di Aldo Moro: la percezione che se c’è una parte della società che resta “fuori”, beh va ricondotta dentro il circuito democratico-rappresentativo perché altrimenti siamo deboli. Segnalo anche un altro elemento decisivo. A quell’epoca c’era rispetto degli uni verso gli altri, nonostante le distanze. Anche perché alla fine c’era rispetto per chi comunque rappresentava così tanti elettori». Dunque tornando per un secondo alla esperienza spagnola e a quello che insegna, lei sta dicendo che gli italiani sono più maturi di chi li rappresenta. «Direi di sì. Voglio insistere su un punto. Quando negli anni ’70 una parte delle fratture si va ricomponendo - ricorda quando si parlava di solidarietà nazionale? - maturano le condizioni di una nuova, profonda frattura. Per due ragioni: i partiti che si essiccano, diventano più palazzo che società e la corruzione che prende piede in misura superiore al tollerabile generando Mani Pulite. Questo è il primo alimento dei movimenti populisti che arriveranno dopo, avvalendosi e agitando una nuova frattura. Quella tra “noi” cittadini e il Palazzo; noi e le elités, noi e la Casta che diventerà ancora più grave quando la crisi economica accentuerà le diseguaglianze togliendo futuro a molti. Ecco i populismi, che sono in partiti di governo e di opposizione. Ma hanno una caratteristica comune: che non legittimano più l’altro. Non operano più come parte che vuole connettersi al tutto bensì come parte che è il tutto. La maggioranza ha titolo a ignorare gli altri, decide anche contro il resto del Paese». La domanda è semplice: esiste un antidoto a tutto questo? «L’antidoto è se alla lunga tutto questo per gli italiani diventa insostenibile. C’è chi vive di quel comportamento divisivo, scrivendo cattiverie nei social contro un altro e il giorno che finissero le cattiverei finirebbero anche lui o lei. Ma è ben possibile che esista una maggioranza di italiani che dice: ora basta. Basta. Ora insieme dobbiamo scegliere la via. Ora per cortesia i remi usateli per remare». Presidente, per ricomporre chi deve fare il primo passo?«Ho sempre pensato e penso che le responsabilità sono diffuse. Ma chi governa ha quelle maggiori anche in questa fattispecie. Non c’è niente da fare. Ed è assodato che in una democrazia parlamentare, fare in modo che le decisioni si prendano in Parlamento, non limitandosi a dare agli altri un diritto di tribuna ma discutendo seriamente delle proposte degli uni e degli altri, e facendo in modo come si seppe fare negli anni ’50 e ’60 in un Parlamento molto più diviso di adesso, di far emergere le ragioni di tutti, se si riesce a fare questo gli italiani, anche quelli che appaiono più esasperati, si sentiranno maggiormente tranquilli e in mani più sicure». Presidente, c’è un aspetto che in queste ora sta dividendo tutto e tutti: la decisione di prorogare lo stato d’emergenza per il Covid. Dal punto di vista del giusto bilanciamento dei poteri in una democrazia, è una scelta che lei condivide? «L'emergenza è una cosa grossa assai... Bisogna capire cosa intendiamo per stato d’emergenza, tenendo ben presente l’aspetto tecnico della questione. Penso che i giuristi che ne hanno scritto, a partire da Sabino Cassese, hanno illustrato bene alcuni termini del problema. Una cosa sono le urgenze cautelari di tipo sanitario e una cosa le misure d’emergenza che può stabilire la Protezione civile. Finora , per così dire, l’una si è infilato nell’altra». E adesso, presidente? «Allora lo dico così. Io sono un ultraottantenne. Alcuni giorni fa ho letto un’inchiesta sul New York Times in base alla quale ho una probabilità 50 o 60 volte superiore di essere ucciso dal Covid rispetto a generazioni più giovani. Ebbene se in Italia l’emergenza finisce il 31 luglio e se con essa termina l’obbligo a mantenere le distanze sociali, a indossare la mascherina nei luoghi affollati e quant’altro..., beh personalmente mi sentirei piuttosto preoccupato. La mia domanda è: per tranquillizzare le persone serve lo stato d’emergenza o è sufficiente il potere di intervento che le ordinanze conferiscono al ministro della Salute?».