In genere non sono casuali le corrispondenze di Marzio Breda dal Quirinale per il Corriere della Sera, o i suoi servizi dal fronte, quando il Colle da camera di compensazione e soluzione dei conflitti rischia di essere trasformato dagli attori politici in senso lato, volenti o nolenti, in campo di battaglia, o anticamera di manovre più o meno oblique. Che mirano a congelare o cambiare, secondo le circostanze, i rapporti di forza formatisi nell’ultima crisi di governo arrivata sulla scrivania del capo dello Stato e da lui risolta nell’esercizio dei poteri conferitigli dal secondo comma dall’articolo 92 della Costituzione in termini che più laconici e chiari non potrebbero essere: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». E ciò anche quando il governo è ridotto dalla sfiducia delle Camere a gestire, su insindacabile giudizio del capo dello Stato, le eventuali elezioni anticipate.

Mi è già capitato, qui sul Dubbio, di immaginare il disagio di Sergio Mattarella di fronte a quelle che Breda, riferendo delle reazioni degli “intimi del Quirinale”, ha definito «chiacchiere fatue e gratuite» sulla corsa alla successione cominciata con più anticipo del solito rispetto alla scadenza del mandato presidenziale. Che «si materializzerà - ha ricordato il quirinalista del Corriere - il 3 febbraio 2022», cioè fra un anno e mezzo. Il fastidio di Mattarella, che potrà sorprendere solo chi non lo conosce o non lo apprezza abbastanza, nasce innanzitutto dalla propensione mostrata da qualche settore politico e opinionista a considerarlo tentato, come è accaduto ad alcuni predecessori dietro un disinteresse solo formale, da una rielezione. Cui egli è contrario per «un fatto di coscienza», ha scritto Breda attribuendogli la condivisione del “precetto” una volta espresso dal costituzionalista Livio Paladin che «la rielezione di un capo dello Stati non è vietata ma non è opportuna», vista la durata non certo breve del mandato, che è di ben sette anni.

Un messaggio, del genere, a dire la verità Sergio Mattarella l’aveva già affidato qualche tempo fa al vecchio, o venerando, Eugenio Scalfari, con cui ha un antico e consolidato rapporto. Ma, visto che si è continuato a dire e a scrivere il contrario, mettendo cioè nel conto una sua rielezione, magari condizionata chissà a che cosa, il presidente ha voluto ribadire la sua “olimpica indifferenza” anche tramite il buon Breda, ormai di casa, diciamo così, al Quirinale - beato lui- più dell’inquilino di turno e dei suoi consiglieri e collaboratori. Vediamo adesso se il giochetto di scommettere sulla tentazione della conferma continuerà. Personalmente ritengo che, oltre al “fatto di coscienza” e al “precetto” di Livio Paladin abbia influito sulla indisponibilità di Mattarella la delusione provata dal suo immediato predecessore Giorgio Napolitano. Che nel 2013 cedette, alla sua età già molto più avanzata di Mattarella, all’appello emergenziale di partiti e amministratori locali sfilati al Quirinale dopo il fallimento di vari tentativi di trovargli un successore. Napolitano accettò ponendo pubblicamente la sola condizione, spiegata bene in uno sferzante discorso al Parlamento, e disinvoltamente disattesa dalle forze politiche, di una concreta e rapida riforma della Costituzione.

Piuttosto che farsi complice del ritardo e persino del fallimento, come avvenne con la bocciatura referendaria della riforma varata dal governo di Matteo Renzi, il primo presidente confermato nella storia della Repubblica preferì ridurre a soli due anni il suo secondo mandato. E diede una lezione di vita, diciamo così, ai soliti seminatori di zizzania che gli avevano attribuito su giornali allora di opposizione trame oscure per rimanere al suo posto.

Ma il fastidio di Mattarella per la brutta partita politica che qualcuno vorrebbe giocare alle sue spalle nasce anche dal rischio di “depotenziamento” - come lo ha chiamato Breda - del suo mandato derivante dal tentativo di fare della sua successione una specie di collante della maggioranza giallorossa, che stenta sempre più chiaramente a trovare la necessaria sintonia con l’urgenza e la gravità dei problemi del Paese. Il “depotenziamento”- ripeto - deriverebbe dalla presunzione di cattivi giocatori di anticipare nei fatti, o nella sensazione comune, il cosiddetto “semestre bianco”, che scatterà solo il 4 agosto dell’anno prossimo, quando mancando appunto sei mesi alla scadenza del proprio mandato il presidente della Repubblica non potrà sciogliere anticipatamente le Camere per esplicito dettato dell’articolo 88 della Costituzione. Che fu modificato nel 1991 per consentire ugualmente l’esercizio di questa prerogativa quando coincidono gli ultimi sei mesi dei mandati del capo dello Stato e del Parlamento. Non è certamente il nostro caso, scadendo le Camere attuali nel 2023.

Avvicinare nella comune rappresentanza del quadro politico quello che Breda chiama “il congedo” del presidente, come se fosse ormai alla scadenza del proprio mandato, potrebbe essere - ha scritto il quirinalista del Corriere - «una mossa pericolosa, studiata magari per esorcizzare qualsiasi ipotesi di voto in autunno e nel contempo puntellare la vacillante maggioranza giallorossa, vincolandola fin d’ora a un patto per imporre insieme il prossimo» presidente della Repubblica. Più chiaramente di così la situazione non poteva essere esposta, anche per la parte in cui la partita del Quirinale risulta così ristretta ai soli due maggiori partiti della coalizione di governo, con la sostanziale esclusione - ha scritto Breda- dei “leader di quei partiti- cespuglio, come Matteo Renzi, che nel 2015 fu il king maker dell’elezione di Mattarella”. Ma Renzi era allora segretario di un Pd in buona salute politica ed elettorale e, insieme, presidente del Consiglio. Adesso quella doppia del Quirinale e del governo, già impropria di suo, sarebbe tutt’altra partita nelle mani di un movimento grillino dalla indecifrabile natura e di un Pd che ne subisce sempre più malvolentieri il peso.