Nella primavera del 1941 Spinelli , Rossi e Colorni scrivevano nel carcere di Ventotene il Manifesto che sognava «… la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani». Nel mentre Giuseppe Petrilli, futuro presidente dell’Iri ( Istituto per la ricostruzione industriale, fondato nel 1933 da Alberto Beneduce) e, forse, il principale artefice del boom economico italiano grazie a una visione fondata su innovazione e investimenti nella siderurgia, nella rete autostradale e nei trasporti, lavorava all’Inps di Roma. Aveva 28 anni, era già sposato, una laurea in Matematica e Fisica, e, clandestinamente, partecipava alle azioni della “Brigata Matteotti” di ispirazione socialista. Le idee dei federalisti europei non lo avevano ancora incrociato.

Oggi che, in presenza di una crisi post- Covid paragonata spesso a quella del dopoguerra, si discute dell’intervento dello Stato nell’economia, della necessità di grossi investimenti pubblici nel campo della ricerca tecnologica e ci si domanda se l’aver ceduto al privato interi settori strategici dell’industria non sia stato un errore, ricordare la figura di Petrilli può essere un utile esercizio.

Si torni dunque indietro agli anni Cinquanta e alla sua iscrizione alla Democrazia cristiana. Leader di riferimento Fanfani e il gruppo Civitas Humana, di cui facevano parte anche Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti. Chiara la matrice cattolica e la sensibilità verso i più deboli.

I tempi sono quelli della guerra fredda, preoccupano le reazioni all’invasione sovietica dell’Ungheria, e all’iniziativa militare anglo- francese in Egitto per il canale di Suez. De Gasperi coglie il rischio di una possibile ulteriore militarizzazione della crisi, e, per primo, sogna la creazione in Europa di una vera comunità politica, dotata di un proprio sistema rappresentativo. Petrilli batte da subito questa strada. Scavalca il concetto allora diffuso che l’unificazione europea sarebbe derivata automaticamente dallo sviluppo degli scambi e, creando scompiglio, fa espliciti riferimenti al New Deal rooseveltiano. Scrive e fa approvare il “Regolamento sulla sicurezza sociale dei lavoratori migranti” e istituisce il Fondo Sociale Europeo che diventa, con lui presidente, uno dei principali strumenti per la crescita dell’occupazione nell’area.

Per descrivere meglio la figura di Petrilli è opportuno tornare al 1960 quando, sempre Fanfani, lo fa nominare presidente dell’Iri. Incarico che manterrà per diciannove anni. Protagonista del cosiddetto “miracolo italiano”, e, poi, della decadenza di una concezione dello sviluppo che concedeva ai partiti politici un’eccessiva possibilità di condizionamento. Ma per almeno dieci anni e forse più l’Iri e la formula delle Partecipazioni statali vennero considerati anche all’estero un modello da seguire. Lo spirito di solidarietà che aveva da sempre accompagnato il presidente nel suo percorso umano e politico gli fece scrivere nel 1967 un libro di 250 pagine dal titolo: “Lo Stato imprenditore: validità e attualità di una formula”, nel quale si possono andare a pescare spunti di ispirazione per l’oggi. Non sbaglia chi vede in alcuni decreti del governo Conte un’identità di intenti.

Ora però c’è da raccontare il finale della storia. Soprattutto per evitare che non si ripeta. Le buone intenzioni di Petrilli, infatti, sottovalutavano il fatto che il suo Istituto era tenuto al guinzaglio dai fondi di dotazione che venivano erogati dal Parlamento e che la loro destinazione era sottoposta alle scelte clientelari dei partiti oltre che a quelle industriali. Lo scontro era accesissimo e lui ne divenne ostaggio. Nel 1976, in seguito a una circostanziata denuncia anonima, la Procura di Milano apre un’ inchiesta su quello che più tardi sarà definito “Lo scandalo dei fondi neri dell’Iri” o “Lo scandalo dei Boiardi di Stato”. Consiste in questo: inizialmente 3200 miliardi di lire destinati alla Scai ( Società per la costruzione delle autostrade italiane facente capo all’Iri) prima di essere utilizzati vengono parcheggiati per settimane o mesi in conti correnti bancari e titoli di Stato producendo interessi che finiscono su vari libretti di risparmio. Con questo meccanismo, ripetuto nel tempo, tra il 1973 e il 1983 si crea un fondo extra bilancio di oltre 300 miliardi. Così accade che nel 1985 all’esterrefatto Romano Prodi, allora presidente dell’Iri, viene consegnata dai magistrati milanesi una scatola con 141 miliardi. Sono quelli recuperati dalle indagini. Ma gli altri 160?

Questo gigantesco “tesoretto”, a quanto dice l’inchiesta, è servito col beneplacito di Dc e Psi a finanziare partiti, giornali, televisioni, università, cliniche, chiese. Risulta che ci si sia pagato perfino il riscatto di un rapimento. Ovviamente il vertice dell’Iri è inquisito. Già nell’ottobre del 1984 il direttore generale viene arrestato insieme con l’amministratore delegato di SCAI e Italstrade, mentre gli inquirenti chiedono l’autorizzazione a procedere per Petrilli che nel 1979 era stato eletto senatore nel collegio ( fanfaniano) di Arezzo. L’accusa per tutti è di malversazione e falso in bilancio. Il senatore si difende sostenendo che i fondi in questione servivano per pagare tangenti finalizzate a ottenere commissioni sui mercati esteri. Gli imputati sono infine assolti per intervenuta prescrizione relativamente agli anni 1974- 79 e con formula ampia per i fatti successivi. Petrilli si rivolge alla Cassazione perché la prescrizione lascia su di lui un’ombra. Ma la Suprema Corte respinge il ricorso e la politica lo cancella.