Il video dell’uomo tunisino pestato a sangue da un gruppo di italiani a Jesolo ha raccolto in poche ore decine di commenti d’odio nei social, soprattutto su Facebook, da parte di utenti che si sono schierati senza mezzi termini dalla parte del gruppo, insultando e offendendo la vittima con frasi del tipo: «se l’è meritata». Giovanni Boccia Artieri, docente di Sociologia della comunicazione e dei media digitali all’università “Carlo Bo” di Urbino, come giudica i commenti che incitano alla violenza apparsi nei social nelle ore successive al pestaggio? Ci troviamo di fronte al carattere tipico di un movimento d’odio online, che si sviluppa quando i social sono utilizzati come valvola di sfogo di tensioni preesistenti e degli umori dell’utente. Il video mostra un classico “noi contro loro”, cioè, in questo caso, un gruppo di italiani contro uno straniero che viene visto come diverso. Si realizza, insomma, un contrasto d’appartenenza che in Rete trova lo spazio per propagarsi. In che modo il meccanismo dei social alimenta la propagazione? Pensiamo a Facebook: l’algoritmo al suo interno contiene dei “pesi” che tengono conto delle novità e delle reazioni che un post suscita: più commenti e interazioni si sviluppano sotto al contenuto condiviso, più probabilità avrà ogni singolo utente di vederlo nella propria bacheca. Questo non fa altro che aumentare la percezione di vicinanza dell’evento: è come se quel video non fosse stato girato a Jesolo ma sotto casa di ognuno di noi. Ma con l’epidemia di coronavirus non dovevamo diventare tutti un po’ più buoni? La mia sensazione, da utente e da studioso, è che durante il lockdown ci sia stato, soprattutto all’inizio, un momento di “decompressione” dei fenomeni d’odio online, per il semplice motivo che da un giorno all’altro, a inizio marzo, non si è parlato più di argomenti che solitamente aumentano la polarizzazione dei cittadini. Penso, ad esempio, al calcio e all’immigrazione. In tempi di distanza sociale abbiamo trovato invece un nuovo tipo di “fisicità digitale”, che ci ha portato a condividere online le ansie e le paure suscitate dall’epidemia. E poi tutto come prima... Terminata la fase “calda” dell’emergenza si è tornati ai meccanismi normali, la politica ha ricominciato a confrontarsi in maniera accesa (mentre durante il periodo di chiusura la voce del governo occupava gran parte del dibattito pubblico) e gli utenti del web hanno sentito di nuovo il bisogno di sfogarsi tramite la tastiera del pc. Con il risultato che la tensione sociale accumulata in questi mesi sta sfociando in minacce a imprenditori e politici e insulti di tipo razziale contro gli “untori” del virus. A proposito di insulti, come ci si può difendere quando si finisce vittima di una “tempesta d’odio” online? Dal punto di vista legale l’utente del web ha gli stessi diritti del cittadino fuori dallo schermo, con la differenza che spesso è difficile capire se un commento pubblicato sotto a un post possa essere considerato come opinione personale o, ad esempio, come un possibile reato di diffamazione. In ogni caso, oltre alle policies adottate dai profili istituzionali, come quelli dei quotidiani, i singoli utenti possono segnalare un contenuto spiegandone le motivazioni e qualcuno, che sia un essere umano o un algoritmo, si prenderà cura, se necessario, di rimuoverlo dalla piattaforma online. In definitiva, i social hanno aumentato gli episodi d’odio nelle nostre comunità o ne hanno “solo” velocizzato la diffusione? Non credo che i social abbiano aumentato l’odio, ma certamente l’hanno reso più visibile. Le piattaforme digitali tendono a riunire le persone in gruppi virtuali, le cosiddette “bolle-filtro”, in cui gli utenti si coalizzano e, che siano bene o male intenzionati, sentono legittimate le proprie opinioni. Questo rende più facile la radicalizzazione delle idee, ma è evidente che se poi diventa “virale” un contenuto dove ci sono elementi di offesa, insulto o spregio, come nel caso del video di Jesolo, allora occorre fermarsi e riflettere.